De Anima – Parte II – A (Antropologia e Storia delle Religioni)

La perla luminosa sta dentro l’ostrica, la bella gemma sta in mezzo alla roccia: per quanto all’interno esso risplenda, all’esterno è come stolto e insipiente”.

Ho-shang Kung, commento al Tao Te Ching.

Wikipedia -220px-Amore_e_psiche_(1)L’Anima nell’Antropologia e Storia delle Religioni

Come accennato, Popper (1994) fu uno degli autori che affermò esplicitamente la necessità di superare le suddivisioni tra i rami del sapere. Dinanzi ad un interrogativo, il ricercatore procede interdisciplinarmente poiché Tutto interdipende dal Tutto. Diversamente sarebbe come tentare di risolvere una funzione, prendendo e calcolando solo una piccolissima parte delle sue variabili, ignorando tutte le altre (!!). Dire che ciò conduce ad un risultato sbagliato è in se cosa ovvia!!

L’Anima come “Principio Vitale” nelle Culture Primitive

Agli albori dell’Umanità, i phenomena naturali furono concepiti come azioni delle forze vitali dell’Universo. Forze rappresentate simbolicamente con le immagini di: dei; spiriti; etc… .

L’Uomo, essendo parte della Natura, era anch’esso mosso da un proprio principio vitale: l’anima. Una concezione che assunse il nome di animismo.

Partendo da tali assiomi, il Sonno e la Morte erano visti come l’uscita dell’anima dal corpo. La loro differente natura conseguiva al tipo di separazione: momentanea per il sonno, permanente per la morte.

Le rappresentazioni (e/o le allegorie) usate cambiano da etnia ad etnia.

Gli Eschimesi rappresentano l’anima come un’entità invisibile e sottile colla stessa forma del corpo. I Malesi, di contro, la raffigurarono grande come un pollice e residente in cima alla testa.

Le rappresentazioni dell’anima si differivano da cultura a cultura per: il numero; la localizzazione; la forma. Alcune etnie credono che nell’uomo esista una sola anima; altre una molteplicità. Quest’ultime non concordano sul ‘numero’. Sette per i Batak, Daiachi e d’altri Malesi della penisola. Quattro per gli indiani Hidatsa. Tre per gli Alfur di Poso nel Celebes. Gli indigeni del Laos credono che nell’uomo dimorino ‘trenta spiriti’. Ognuno dei quali presiede una particolare parte del corpo.

Anche la ‘sede’ dell’anima cambiava da etnia ad etnia. Dalle più “gettonate” (testa; cuore) si passa ad altre sedi quali il fegato (Darfur dell’Africa Centrale).

Nonostante le “differenze formali”, tutti condividono un’unica “visione sostanziale” riassumibile colle parole di Zosimo: “due nature, una sola essenza[1]. Le “due nature” sono: quella immortale raffigurata simbolicamente dal concetto di anima; e quella mortale raffigurata dal corpo fisico. La “sola essenza” è l’unità dell’essere vivente, Subjectum Incarnationis, epifania dell’unjo mystica fra l’Aeterna Anima, Intellegentia Spiritualis, e l’amato Corpus, fidele d’Amore, nella loro reciproca devotio et unjo sympathetica.

Il primo corpus di conoscenze sull’anima fu raccolto dallo Sciamanesimo. Oggetto della sua speculazione erano i ‘viaggi’ che l’anima faceva una volta separata dal corpo. Lo scopo di questi “viaggi” era quello di: contattare gli antenati per chiedere ‘consigli’; combattere gli ‘spiriti maligni’ che causavano le malattie. Le tecniche impiegate erano due: l’uso di rudimentali metodi ipnotici (e.g. la ripetizione di suoni); e l’assunzione di “sostanze allucinogene” estratte da piante e funghi (Frazer, 1910, 1922, 1930; Wittgenstein, 1975; Mircea Eliade, 2005).

L’Anima come “Principio Vitale” nelle Culture Classiche (Occidentali ed Orientali)

Per culture classiche intendiamo all’interno del Mondo Occidentale: la cultura ebraica; greco-romana; cristiana. Quest’ultima sarà trattata nella sezione dedicata alla teologia.

Nel Mondo Orientale riteniamo classiche: l’insieme delle credenze sviluppatosi attorno ai veda (vedismo-bramanesimo-induismo); Buddismo (Hinayana; Mahayana); Taoismo.

Le Culture Classiche Occidentali

Partiamo dall’ebraismo. Nell’Antico Testamento, la parola ebraica tradotta come anima è nefes. Essa indica la gola e/o il collo. In seguito, divenne significante per: vita ed anima. Un termine strettamente connesso colla parola ruah (soffio vitale; spirito; respiro).

E’ da precisare, sin d’ora, come la tradizione ebraico-biblica non conosceva l’idea di anima immortale capace di sopravvivere al corpus dopo la morte. L’essere umano era inteso come uno ed indiviso. Solo a partire dal II/I secolo a.C. un anonimo ad Alessandria d’Egitto, scrivendo il Libro della Sapienza, introduce per la prima volta nella cultura ebraica il concetto d’immortalità greco. Questo fu rielaborato, nella fusione d’orizzonti, come sinonimo d’incorruttibilità. Un mutamento che prese forma nell’ambiente sincretico formatosi ad Alessandria d’Egitto durante il regno dei Tolomei. Una città che divenne uno dei principali ‘crogioli’ di fusione delle diverse culture del tempo[2].

Diversamente dalla parola greca psiche, nefes indica esclusivamente la vita ed il soffio vitale. Essa non include le altre dimensioni quali: le emozioni; i sentimenti, i pensieri; le decisioni; etc… . Quest’ultime, sono espresse dalla parola cuore (leb o lebab) e/o reni.

Quindi nell’ebraismo, nefes rappresenta l’essere vivente (nefes hajjah) nel quale Dio soffia l’“Alito di Vita” (nismat hajjim)[3]. Nel fare ciò, Dio, permette al Soffio Vitale di prendere dimora nell’Essere Creato, rendendolo Vivente.

Come molte religioni e scuole filosofiche antiche, l’ebraismo ha due componenti: una essoterica (pubblica); ed una esoterica (ristretta a pochi).

La prima è costituita: dai libri canonici dell’Antico Testamento[4]; dall’insieme dei riti; dalle preghiere; dai costumi del popolo ebraico. La seconda è costituita: dalla riflessione della qabbalah[5]. Quest’ultima “ufficialmente” nata nel XII secolo d.C. ha origini molto antiche. Risale al corpus millenario della tradizione mistica ebraica, tramandato oralmente fino al XII secolo e messo per iscritto (per vari fattori storici) da quel momento in poi.

Sebbene non sia presente nell’ebraismo essoterico, la qabbalah considerò la possibilità della reincarnazione. Alcuni ‘passi’ e/o ‘termini’ utilizzati suffragano questa tesi. Uno di questi è la parola gilgul che significa: giro; rotazione. Essa indica l’incessante passaggio delle anime da un corpo all’altro. E’ interessante rilevare come quest’immagine allegorico-simbolica sia molto simile a quelle della cultura orientale. Non a caso, in quest’ultima, il “ciclo delle nascite”[6] è rappresentato proprio da una ruota[7]. Una ‘raffigurazione classica’ tibetana, exempli gratia, la dipinge fra le fauci di Yama. Nella ruota sono illustrati i sei destini nei quali le anime degli esseri senzienti possono trasmigrare[8]. I ‘sei destini’ sono quelli: degli Uomini; dei Deva; degli Asura; dei Preta; dei Diavoli (ovvero di coloro che abitano i ‘regni infernali’: naraka); e degli Animali. Un’esistenza ciclica originata dall’Ignoranza Fondamentale[9] che affligge gli esseri senzienti. E’ quest’Ignoranza la causa ultima: del samsara; della genesi interdipendente[10].

Nell’antica Grecia, contrariamente alla cultura ebraica, l’idea della reincarnazione (metempsicosi) era presente nei culti esoterici.

Herodotus affermò che tali idee furono mutuate dalla cultura egiziana. Egli dichiarò che gli Egizi, per primi, affermarono: l’immortalità anima (psyche); ed il processo delle sue rinascite. L’autore arrivò a sostenere che, una volta acquisite tali credenze, i Greci le presentarono come proprie!

Di contro, Herodotus si sbagliò clamorosamente. L’origine delle tradizioni legate alla metempsicosi sono indoariane (nate nel sub-continente indiano). I veda, non influenzarono solamente la cultura indiana ma, tramite le migrazioni indoariane influenzarono anche molte delle culture e religioni del: medio e vicino oriente; e bacino mediterraneo[11]. La loro influenza non si limita alle tracce lasciate dal sanscrito nelle lingue occidentali (quali il Greco ed il Latino). Essa si manifestò anche all’interno dei ‘nuovi culti’ nati dall’incontro, e fusione d’orizzonti, delle tradizioni indoariane con quelle locali.

Un esempio clamoroso dell’influenza Vedica nel mondo Greco-Romano è dato dal culto di Mitra. Quest’ultimo, seppur ri-elaborato ed arricchito da elementi ‘occidentali’ funzionali alle esigenze ed alla struttura sociale dell’impero, ebbe origine nel culto vedico di Mitra.

A confutare definitivamente la tesi di Herodotus è la stessa Religione Egiziana. Quest’ultima, non essendo mai stata influenzata dalla cultura vedica (l’Egitto non fu invaso dalle popolazioni indoariane) sviluppò un corpus di credenze e dottrine incompatibili colla metempsicosi come vedremo infra.

Innanzi tutto è da dire che la Religione Egiziana non possiede un corpus dottrinale uniforme. Di contro, essa è un “conglomerato” di culti differenti, legati ognuno a precise aree geografiche[12]. Il ‘successo’ o la ‘sventura’ d’un culto e/o d’un dio (piuttosto che un altro) rispecchiava i ‘rapporti di forza’ che s’instauravano in Egitto colle ‘lotte di potere’. Col passare del tempo, due divinità assunsero un ruolo principale: il Sole (Atum); ed il Nilo.

I culti più conosciuti, quello di Ra, Amon, Osiride, Aton, furono culti solari subentrati a seguito dei ‘capovolgimenti’ politici avvenuti. Il vincente imponeva il proprio culto sul perdente. Per facilitare il passaggio dal vecchio al nuovo culto, l’ultimo assorbiva il primo[13].

Questo processo di fusione ed assorbimento fu una costante storica. Il Cristianesimo non fece eccezione[14]. Tralasciando l’influenza esercitata ex post dalla ‘religione Egiziana’ negli ambienti ‘magico-occultistici’ (tra il quali quelli legati alla massoneria anglo-americana[15]), la religione cristiana assorbì diversi elementi egiziani[16]. Come esempio, cito l’iconografia cristiana della Regina del Cielo che “cristianizza” la precedente immagine di Iside che tiene Horus seduto sulle sue ginocchia. Un altro esempio è l’immagine del giudizio finale usata dall’arte bizantina. Essa riprendeva l’iconografia del Tribunale presieduto da Osiride (assieme alle altre divinità egizie) sostituendo a quest’ultimo, Dio coi suoi Angeli. Anche l’uso della bilancia per pesare l’anima è ripresa dal simbolismo egiziano[17].

Nonostante ciò, come detto supra, non fu egiziana la dottrina della metempsicosi che, di contro, era letteralmente incompatibile coi suoi culti e credenze.

Per sopravvivere nell’Aldilà, le dottrine Egiziane, richiedevano l’adempimento di tre condizioni:

  1. conservare il nome nell’Aldiquà. Il nome doveva rimanere scritto su: Steli, Obelischi; Statue; Tombe; etc…[18] .
  2. conservare il corpo nell’Aldiquà[19].
  3. continuare a nutrire la ‘salma’ nell’Aldiquà[20].

Sebbene pochi se ne siano accorti, tutti questi elementi furono assorbiti e rielaborati nel Vecchio e Nuovo Testamento. Nella tradizione ebraico-cristiana, la conservazione del nome non avviene più sulle steli. L’adempimento è sostituito dal Libro della Vita custodito da Dio (Esodo; Salmo 69; Lettera ai Filippesi; Apocalisse di Giovanni). Un cambiamento che tolse la possibilità agli eventi dell’Aldiquà d’influenzare le sorti delle anime nell’Aldilà. In questo modo, il destino dell’anima fu rimesso esclusivamente nelle mani di Dio. Solo Lui poteva scrivere o cancellare il nome dal Libro della Vita.

La sopravvivenza nell’Oltretomba, inoltre, non era “roba” per tutti. Nell’Antico Regno fu prerogativa del solo Sovrano. La “democratizzazione dell’Aldilà” (come testimoniata dai testi dei sarcofagi) avvenne durante il Primo Intermedio. In questo periodo, il ‘privilegio’ fu esteso ai nobili ed ai governatori.  Solo in seguito, il diritto all’Aldilà fu esteso anche al popolo in grado di ‘comprarselo’. In altre parole a tutti coloro che potevano: costruirsi una tomba; mummificare il corpo; conservare il proprio nome per iscritto[21].

Tutto ciò dimostra come l’Oltretomba egiziano era assolutamente incompatibile colla dottrina della metempsicosi.

Non solo: la reincarnazione era assente; l’anima non era neppure immortale (potendo essere “uccisa” colla cancellazione del nome). L’idea stessa della reincarnazione era impensabile per il forte legame biunivoco ed indissolubile tra anima e corpo. Un legame testimoniato dall’esigenza di conservare il corpo colla mummificazione per permettere all’anima la “sopravvivenza” nell’Aldilà.

L’egiziano era un uomo atterrito dalla Morte poiché essa era la fine di tutto; mentre chi crede nella reincarnazione e/o metempsicosi non lo è.

La dottrina della metempsicosi greco-romana non ha nulla di egiziano. La sopravvivenza dell’anima era certa ed indipendente dalla sorte del corpo e/o del nome. Tutte le anime sopravvivevano senza distinzione di ceto. Una dottrina assai più affine all’induismo ed al buddismo che alla tradizione egiziana.

Nel mondo greco, Psyche era contrapposta a Soma. Una contrapposizione testimoniata dagli Orfici che credevano che il corpo [soma] fosse la tomba dell’anima [psyche] (Platone, Cratilo). Conformemente alle dottrine orfiche, l’anima sarebbe rimasta prigioniera nel corpo fin quando non avesse finito di scontare le pene assegnatole.

Claudianus Mamertus, nel De statu animae, ci testimonia le simili credenze dei Pitagorici. Un esempio è dato dalle affermazioni di Ippone di Metaponto che sottolineò la distinzione fra psyche e soma detta supra.

Durante il Regno dei Tolomei avvenne la fusione tra il pantheon Greco ed il pantheon Egiziano[22]. Questo fu l’inizio della ‘confusione’ che, ex post, permise di sostenere ‘tutto e l’infuri di tutto’ su chi influenzò chi. Elementi propri della cultura Greca[23] furono attribuiti a quella egiziana.

Un esempio di ciò è dato dal Corpus Hermeticum. Una raccolta di detti filosofici greci per tradizione. Di contro, fu “ribattezzato” traduzione greca del “perso” libro di Thot! Un’idea sostenuta dalla massoneria inglese che volle imporre, in tal modo, la figura di Thot (e dell’esoterismo egiziano) al centro del suo Credo. In realtà, le testimonianze escludo che il Corpus Hermeticum possa essere la traduzione dei persi Libri di Thot. Infatti, quest’ultimi risulterebbero essere dei formulari di riti magici e divinatori, non certo dei trattati di filosofia. Di contro, tale attribuzione sembra contenere un più marcato “carattere politico”. Con essa, alcuni ambienti della tradizione esoterica inglese (privi d’una propria tradizione storica), vollero creare “un proprio esoterismo” soppiantando le tradizioni Greco-Romana, Cristiana, Islamica, che dominarono lo sviluppo della “bella filosofia”.

Non a caso, la loggia numero 10 della massoneria londinese (il cui motto è: audi, vide, tace) utilizza l’architettura egizia[24]. Copie del libro dei morti sono dipinte sulle pareti; colonne egizie col fiore di loto appaiono ovunque; decorazioni tipiche dei templi egizi abbelliscono gli ambienti. Lo stesso rituale della rinascita, usato dalla massoneria inglese, fu attribuito alle conoscenze trasmesse da Thot!

Di contro, Arthur Darby Nock (1938) condivise questi dubbi. Egli affermò come il Corpus Hermeticum, escludendo l’ambientazione e la cornice egiziana, contenga ben pochi elementi egiziani. Esso appare essere una manifestazione propria del pensiero filosofico greco espresso in forma eclettica, tipica dell’ellenismo, in cui le diverse dottrine (Platoniche; Aristoteliche; Stoiche) erano fuse con elementi d’altre tradizioni (e.g.: egiziana; giudaica; Iraniana; etc…).

L’autore, nei suoi commenti, omette di ricordare la derivazione vedica di molti elementi che divennero parte delle tradizioni greche ed iraniane attraverso le migrazioni indoariane. Una derivazione che emerge prepotentemente in alcuni miti quali quello di Er raccontato da Platone nel Repubblica. Sebbene alcuni autori (Mircea Eliade, 2005) indichino il mito di Er come espressione d’un ‘viaggio sciamanico’, ritengo di contro che esso non abbia nulla a che fare collo sciamanesimo, testimoniando invece, il legame della cultura greca colla vedica.

Il mito di Er non presenta, infatti, alcun elemento Sciamanico poiché: non c’è trance ipnotica; il ‘viaggio’ non è fatto sotto l’effetto di sostanze allucinogene; il ‘viaggio’ non è intrapreso per comunicare cogli spiriti e/o guarire qualcuno. Insomma, non c’è un solo (e dico uno) degli ‘elementi tipici’ dello sciamanesimo. Di contro, il mito di Er illustra la dottrina della metempsicosi descrivendo il ciclo delle rinascite. Le uniche analogie con questo mito possono essere trovate solo nell’Induismo e nel Buddismo succintamente descritti infra.

Le Culture Classiche Orientali

Non è capito da coloro che capiscono.

E’ capito da coloro che non capiscono”.

Kena-Upanisad (II, 3)

Da dove partire?

La Parola, non è semplicemente il punto di partenza della religione Egiziana e Cristiana[25], ma anche di quelle che si sono sviluppate attorno ai Veda.

In altre parole, le principali tradizioni Occidentali ed Orientali trovano nella “parola” (logos; verbum; vac) il principio della Creazione, la primogenita dalla quale tutto il resto deriva (Taittiriya brahmana).

Ecco il punto di partenza, la Parola (Vac) vista come: emanazione dell’Essere Supremo; origine della Creazione; rivelazione stessa; il Veda[26] comunicato in forma unitaria. Tramite essa, l’Assoluto rimasto implicito nella Creazione, s’esplicita. Ecco il potere della Parola, esplicitare l’implicito.

Nonostante la tradizione induista consideri la Parola (Vac) sinonimo di Veda, inteso unitariamente, conformante alla tradizione, quest’ultimo fu scisso dal rsi[27] Vyasa[28] nella samhita[29]. Quest’ultima è il Veda in “senso stretto”. Di contro, Veda in “senso lato” include i corpora dei: Brahmana[30]; Aranyaka[31]; e delle Upanisad[32].

Gli inni della samhita, assieme ai testi dei Brahmana, Aranyaka, Upanisad, costituiscono la sruti (ovvero: ciò che è stato udito e rivelato).

Alcuni arrivano ad includere nei Veda i Vedanga[33]. Questi testi costituiscono la smirti (memoria). Contrariamente alla sruti (rivelazione), la smirti è considerata “opera umana”. Per questo motivo, chi scrive non ritiene condivisibile (da un punto di vista “teologico”) far rientrare i Vedanga (smirti) all’interno dei Veda (sruti)[34].

Dopo aver definito e delineato il concetto di Parola (Vac) nella sua dimensione rappresentante, e nel suo carattere significante, c’addentriamo ad esaminare il significato, ovvero ciò che, tramite essa, è rappresentato. In altre parole, descriviamo come l’Assoluto implicito s’è esplicitato nella Creazione, rendendosi conoscibile al pensiero riflessivo del Creato.

L’Assoluto dei Veda, come quello ebraico, è privo di nome. Egli, essendo emanazione d’ogni cosa, è ogni nome. Attribuirli un nome, implicherebbe circoscriverlo in una definizione, ovvero limitarlo. Questo creerebbe l’implosione dello stesso Assoluto. L’Intero, Indiviso, Illimitato, il Tutto non può ricondursi ad una parte divisa e limitata. Ridurlo ad essa, sarebbe privarlo del suo Essere Indiviso ed Illimitato, ovvero ciò che gli conferisce la natura d’Assoluto.

Nei Veda, ci si riferisce ad esso col pronome interrogativo Ka (Chi?) e/o Tad Eka (Quell’Uno). Nell’Ebraismo, di contro, furono adoperati una pluralità di appellativi diversi, spesso conseguenti e rivelanti la pluralità delle tradizioni confluite nella Bibbia. I termini più usati furono: El; Elohim; Yawe; Adonaj.

La pluralità degli dei e delle forme divine, conformemente ai Veda, sono parte dell’inganno di Maya. Esse, difatti, manifesterebbero lo stesso Uno (RG-Veda; Mahabharata, Bhagavad gita). Un Dio Unico, che come il Dio ebraico, non ha immagine (Yajur Veda), essendo egli stesso ogni immagine.

L’insegnamento principale veicolato dai Veda riguarda l’Atman[35]. L’atman indica l’aspetto più d’inafferrabile dell’esistenza (Brhadaranyaka-Upanisad, III, 9,26), il soffio vitale divenuto cosciente all’interno dell’essere fisico (Kausitaki Upanisad, IV, 20). Esso, trascendendo la dualità, assume la duplice natura d’essere: individuale (Atman) ed universale (Mahatman[36]). Una caratteristica che rende possibile l’identificazione dell’Atman col Brahman, conducendo alla riconciliazione del principio individuale col principio universale, nell’identificazione dell’idam col Tad[37] celebrata nel primo Mahavakya[38]. Traducendo il concetto in termini occidentali, è realizzata l’identificazione (e fusione) del micro cosmo col macro cosmo.

Un’identificazione confermata dal verso: “Lui è ciò che Io sono, Io sono ciò che è Lui”[39] dell’Aitareyaranyaka (II, 2, 4).  Un verso che esprime l’identificazione dell’anima individuale (jiva) coll’Assoluto rappresentato dall’Isvara all’interno d’un rapporto dialogico ricorsivo[40], che rielabora i concetti veicolati dai Mahavakya[41].

L’essenza del messaggio vedico è questa identificazione. Fallire ciò, significa rimanere prigionieri nel samsara. Solo raggiungendola, può essere ottenuta la liberazione dal ciclo delle rinascite.

In questa prospettiva, ogni essere senziente ha da devolvere ogni pensiero ed azione all’Atman. L’amore per gli oggetti del Mondo è trasceso in amore per l’Atman, di contro, esso sarebbe idolatria[42]. Una trasmutazione che conduce l’amore coniugale ad elevarsi e trascendere in amore per l’Atman, diventando in questa nuova veste, mezzo salvifico. Questo è l’insegnamento impartito da Yainavalkya a sua moglie Maitreyj[43].

Una volta in cui l’amore, trascendendo la dimensione fisica, diventa desiderio, fervore spirituale, atto a condurre il soggetto alla realizzazione dell’Atman, questo si libera dall’illusione che lo rendeva prigioniero del Mondo, facendolo identificare con i suoi oggetti.

In questi termini, l’induismo ed il buddismo rappresentano un vero logos su psyche capace di raccontare senza invidia le più profonde dimensioni della consapevolezza.

Esplorando la dualità (dvandva), i mistici orientali raggiunsero la “non dualità” (advitiya).

Superando la dualità, vinsero l’avidia (ignoranza).

A questo punto è interessante notare come la tradizione greco-romana (Platone; Virgilio) veicoli gli stessi contenuti fondamentali della tradizione vedica[44].

E’ evidente come il mito di Er (Platone, Repubblica) descriva il pellegrinaggio dell’anima all’interno del samsara. Un pellegrinaggio descritto anche da Virgilio (Eneide, Libro sesto). Il sommo poeta lo descrive nel dialogo che avviene tra Anchise ed Enea. Anchise rivela al figlio non solo il processo della reincarnazione, ma anche il rapporto tra l’amina individuale (atman) e l’Anima Universale (Mahatman). Da quest’ultima alligna: ogni cosa; ogni principio vitale costituente l’anima particolare legata al corpo.

La differenza centrale tra cultura Greco-Romana ed Orientale è questa:

  • al discendente d’Afrodite nessuno seppe dire come interrompere il ciclo infinito delle rinascite. Questo poiché non fu immaginata alcuna possibilità per farlo.
  • invece a Niciketas, Yama (rappresentante il Dio della Morte)[45] rivelò come ottenere la liberazione.

La rivelazione fatta da Yama a Naciketas è contenuta nella Kathopanisad.

Yama, incontrato Naciketas, si offrì d’esaudire tre suoi desideri. Così il ragazzo gli chiede: di essere “lasciato libero” dalla Morte; di conoscere il “fuoco che conduce in cielo”; e di apprendere come liberarsi dal samsara.

Dopo avergli parlato del fuoco che fa oltrepassare la nascita e la morte; di come raggiungere la liberazione nella concentrazione su se stesso; Yama descrive i due destini che attendono l’anima individuale. Il primo è quello che attende tutti coloro che in vita sono rimasti attratti dai beni materiali. Un destino che li imprigiona nel samsara, conducendoli a nuova reincarnazione. Il secondo è quello che attende chi, nell’aver abbandonato tali legami, fu capace di scoprire l’Atman dentro se stesso, raggiungendo la liberazione dal samsara.

Nell’induismo e buddismo, il processo di liberazione implica il superamento dei klesa (impurità; afflizione). Questi possono variare da 3 a 6, in base alle tradizioni e/o scuole. Il nocciolo duro è costituito dai tre klesa fondamentali. Questi sono: l’attaccamento e/o l’avidità; l’avversità e/o l’odio; e l’ignoranza. Il principale è l’Ignoranza Fondamentale (avidya) poiché causa dell’errata percezione della Natura della Realtà, dalla quale consegue ogni altra afflizione (klesa).

Quanto descritto supra è il cardine della filosofia orientale. Tutto il resto è ‘pittoresca illustrazione’, ricche mappe mentali, colorate rappresentazioni dell’altra dimensione, che poco aggiungono alla sostanza del Discorso[46].

Per tali motivi, tralascerò la descrizione dei sei regni, degli otto inferni, dei molteplici cieli abitati dalle varie classi di divinità, della ‘celestiale musica’ suonata dai Gandharva, etc… .

L’Anima nella Teologia ed Escatologia Cristiana

 “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo: ma poiché non siete del mondo perché io, scegliendovi, vi ho fatto uscire dal mondo, il mondo vi odia”.

Giovanni, 15, 18-20

La Novità del Cristianesimo

Il Cristianesimo portò l’Occidente ad abbandonare le credenze sulla metempsicosi. Esso assorbì, rielaborò e sviluppò, themae d’origine Egiziana che legavano indissolubilmente l’anima al proprio corpus. Il pensiero cristiano ereditò tali themae: in parte dal pensiero ebraico[47]; in parte dal crogiolo eclettico culturale fornito dall’Impero Romano durante i suoi primi secoli di formazione.

Il Cristianesimo evolse ‘metafisicamente’ alcune idee della religione egiziana[48]. Di grande impatto fu l’estensione della salvezza a tutti, senza distinzione di ‘classe sociale’.

La comprensione del legame biunivoco tra corpo e anima ereditato dalla religione Egiziana ed Ebraica è fondamentale per intendere l’antropologia e l’escatologia cristiana[49].

Al cristiano è concessa una sola vita per ottenere (o perdere) l’eterna salvezza. Il legame indissolubile esistente tra anima e corpo preclude la possibilità della ‘reincarnazione’. Cosa inutile per un Cristiano, dato che lo scopo della reincarnazione è quello di permettere all’anima di potersi salvare da sola all’interno d’un percorso evolutivo (marga in sanscrito; magga in pali) costituito da più vite. Un percorso necessario per gli orientali, in quanto l’anima non può essere salvata da nessun dio, potendosi salvare solo da se stessa. Gli stessi dei, infatti, sono soggetti alla reincarnazione ed al karma. Per il Cristiano, invece, è solo Dio che può salvare. Questo renderebbe inutile un proseguire d’esistenza in esistenza per ottenere un qualcosa che intanto un’anima da sola non potrebbe mai ottenere.

Interessante è la dottrina della resurrezione dei corpi[50]. Una vera novità che creò non pochi problemi filosofici. Ricordo il “problema dello stato intermedio” che intercorre dalla morte storica del soggetto al giorno della resurrezione dei corpi e del Giudizio Universale. Uno iato temporale che, come protagonista, ha proprio l’anima (Ruiz de la Pena, 1988). Un problema che condusse l’Escatologia Cristiana a scindersi in due branche: l’Escatologia Universale; e l’Escatologia Individuatole. La prima tratta: della Storia della Salvezza; del Giudizio Universale; della resurrezione dei corpi; della salvezza dei giusti e della condanna degli ingiusti. La seconda, di contro, affronta proprio: il periodo intermedio che intercorre dalla morte del soggetto al giorno in cui avverrà il Giudizio Universale; e cosa accada all’anima durante tale attesa.

La dottrina della resurrezione è strettamente legata alla dottrina dell’immortalità. Una dottrina eredita dal pensiero Greco che ad Alessandria ebbe già occasione d’influenzare la religione Ebraica (Libro della Sapienza). Nell’assorbire il pensiero greco, l’ebraismo ed il cristianesimo, lo fusero colle loro precedenti credenze, sviluppando una propria concezione d’immortalità. Nonostante (come testimoniato dal Libro della Sapienza) fu “recepita” la distinzione tra soma e psyche, soma e pneuma, il pensiero ebraico-cristiano non intese l’immortalità come quello greco. L’immortalità, a causa delle precedenti credenze ed influenze Egiziane, fu intesa come incorruttibilità del corpo (Luiz de la Pena, 1988). Un assunto fondamentale che portò come naturale conclusione la dottrina della resurrezione.

Il rigetto tassativo della metempsicosi, oltre ai motivi visti supra, consegue proprio alla peculiare idea cristiana d’immortalità / incorruttibilità che nulla ha a che vedere colla filosofia Platonica posta a base del mito di Er.

Non può essere accettata la metempsicosi in virtù del legame indissolubile tra corpus et anima che lega inscindibilmente le “due nature” ad un unico destino. L’anima non va da nessuna parte senza il suo corpus. L’immortalità, così intesa, richiede ed esige l’incorruttibilità del corpus nella resurrezione. Così, durante il Giudizio Universale, assieme saranno condannati o salvati, non potendo l’uno, essere senza l’altro  

Sebbene in duemila anni di Storia la dottrina abbia ricevuto diversi cambiamenti, quanto supra delineato fu il basamento e la struttura d’ogni altro sviluppo. Le differenze affermatosi nel passare dalla dottrina paolina alla “visione classica” della tarda Scolastica, per finire alla Teologia post conciliare, concernono maggiormente le decorazioni date alla struttura, ovvero alle immagini usate per descrivere ed interpretare le Realtà Ultra-terrene. Immagini che anticamente venivano prese alla “lettera”, mentre oggi sono considerate come simboli esplicativi d’una Realtà trascendente altrimenti non comunicabile. Così intese, l’attuale escatologia non è da intendersi come sapere profetico su “cosa accadrà”, né (tanto meno) come ‘mappa’ dell’Aldilà, ma come espressione di Speranza nella Salvezza ultima (Greshake G., 1990). Rinunciare alla Speranza è rinunciare a Dio, come comprese il Sommo Poeta, l’amato Dante, nello scolpire sulla Porta dell’Infernoparole di colore oscuro[51] così terribili da dirsi e da pensarsi: “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate[52]. Parole che, in tempi non sospetti, posero l’accento sul capo saldo che la teologia post-conciliare ha messo al suo centro: la Speranza.

La speranza che: la storia personale ed Universale siano orientate verso una buona fine.

Da quanto supra detto, si può dedurre come sia difficile definire l’anima all’interno della Teologia Cristiana. Gesù vince la Morte solo per la resurrezione del corpo. Questo è ciò che si celebra nella Pasqua Cristiana. Questa è anche la differenza del Cristianesimo con ogni altra religione.

L’immortalità, infatti, in sé e per sé non è nulla di nuovo. Tutte le religioni ne parlavano. La stragrande maggioranza riconosce un’anima immortale capace di sopravvivere al corpo. Nessuna, di contro, arrivò ad affermare la resurrezione del corpo fisico. Prendiamo, exempli gratia, il Buddismo. Quando l’essere senziente raggiunge lo stato di Bodhisattva[53], rinunciando d’entrare nel Nirvana, non ritorna nel Mondo col proprio corpo fisico risorto, ma, guardando la storia dei Lama tibetani, con nuova reincarnazione[54].

Per i cristiani, invece, è vero l’opposto. La salvezza presuppone la resurrezione del corpo fisico divenuto incorruttibile, legato indissolubilmente alla propria anima. Gesù risorto appare ai suoi apostoli col proprio corpo. Corpus et Anima sono un’unica unità. Un’unità che, qualora giudicata giusta, sarà libera da “seconda morte”. Un’unità nata nel momento del concepimento in quanto: “simpliciter confidendum est quod animae non sunt create ante corpora, sed simul creantur cum corporibus infunduntur[55] (San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 118, a. 3, respondeo)[56].

Questo discorso si complica per gli incessanti assestamenti che il Cristianesimo ha avuto nei secoli per adattarsi ai diversi cambiamenti culturali. Nel nome dell’… et…et…, sviluppò un insieme di concettualizzazioni sfumate, ambigue, atte (in base alle occorrenze del momento) a cambiare di significato secondo l’esigenza.

I concetti di anima e di resurrezione ne sono un’istanza.

Partiamo dal concetto di resurrezione. Quest’ultimo presentò forti differenze interpretative passando dall’idea classica (vista supra) ad un idea, confusa e confondente (eretica a tratti), secondo la quale la resurrezione del corpo non è da intendersi come resurrezione del corpo fisico, ma dell’uomo intero concepito come centro delle sue esperienze vissuti e della sua Storia (Greshake, 1978). Un passaggio che mostra come il concetto sia fluido, inafferrabile, in continuo cambiamento.

Il concetto di anima dà un’altra evidenza di ciò. Dall’anima intrinsecamente inseparabile dal corpo, si passa a ‘visioni platoniche’. Da ‘visioni platoniche’ si torna all’unità. Nel frattempo, la ‘politica’ dell’et… et… formulò ‘dogmi’ ambigui attraverso i quali fu tentata la fusione degli opposti ‘credo’. Il risultato fu un insieme di ‘formule’ atte ad assumere, di volta in volta, ‘mille significati’.

Oggi, Mancuso (2007) torna ad affermarne l’unità attualizzandola all’interno dell’attuale cultura scientifica. L’autore ipotizza l’identità tra l’anima ed il corpo in quanto entrambi sono energia. In questo modo, il dogma cattolico affermato nel 1312 a Vienne, in Francia, secondo il quale l’“anima razionale o intellettiva è immediatamente, e per se stessa, la forma del corpo” è reso compatibile colla Fisica Quantistica. Un dogma che dalla sua creazione si prestò a mille interpretazioni, per il grado di ambiguità che dovette raggiungere al fine di integrare la “visione aristotelica” colla “visione platonica”[57]. Un dogma, talmente versatile, da poter essere riadattato alla fisica moderna. Mancuso (2007), rielaborando il ruolo dell’anima, riadatta la forma corporis in un principio ordinatore capace di mantenere assieme la rete di relazioni costituenti il corpo, includendo in queste, le relazioni intercorrenti fra le particelle sub-atomiche. L’anima è intesa come forza unificatrice di tutte le relazioni. Assunta l’anima come principio ordinatore del Micro-cosmo; assunto il Logos come principio ordinatore del Macro Cosmo; Mancuso giunge a spiegare l’uguaglianza fra Micro e Macro Cosmo nella condivisione della stessa struttura logica.

L’Anima ed il suo Giudizio (una breve comparazione)   

 “La morte è certa per tutto ciò che è nato e la nascita per tutto ciò che muore”.

Trascendendo i tre attributi della natura che dà al corpo la sua esistenza, l’uomo, liberato da nascita, morte … ottiene l’immortalità”.

Mahabharata (Bhagavad Gita)

E’ interessante osservare brevemente alcuni movimenti di segno opposto all’interno delle credenze escatologiche: cristiane; induiste e buddiste.

L’escatologia cristiana partì dal Giudizio Divino per arrivare ad un’“auto-giudizio” che l’anima compie su se stessa, in virtù della coscienza. Quest’ultima è intesa come la capacità dell’uomo di realizzare se stesso nella Veritas in quanto essere creato ad immagine di Dio. Un’idea che trova la sua origine in San Agostino, il quale già identificava la coscienza nell’elemento più spirituale dell’anima, intendendola come la sedes Dei nella quale Dio, irrompendovi, si presenta come: giudice; testimone; accusatore; difensore; etc … .

L’escatologia orientale compie esattamente un percorso inverso.

Partiamo dall’escatologia cristiana. Essa trasforma l’apocalittica giudaica[58] nella dottrina del Giudizio Universale e nell’attesa del ritorno del Cristo alla Fine dei Tempi.

Conformemente a tale dottrina, Cristo, condensando nella propria persona la duplice figura del Messia e del Figlio dell’Uomo, in virtù della Trinità, diventa manifestazione di Dio nella Storia. Per opera dello Spirito Santo, Padre ed il Figlio diventano interscambiabili, rendendo in questo modo quest’ultimo al contempo Alfa e Omega.

In quest’accezione, l’avvento del Regno Messianico è identificato col premio che i giusti attendono dopo il Giudizio Universale. Tale concezione rimase stabile fino all’escatologia post-conciliare. Quest’ultima introdusse l’idea dell’‘auto-giudizio’. Non è più il Tribunale Divino a giudicare l’anima, ma è quest’ultima, in virtù della coscienza intesa come ‘riflesso’ dell’immagine di Dio nell’uomo, a misurare se stessa.

Nell’induismo e nel buddismo avvenne l’opposto. In origine, non esisteva alcun giudice divino. L’idea stessa d’un Giudice Divino era un non senso ‘teologico’. Da una parte, la sorte delle anime era governata dalla legge del karman. Dall’altra parte, gli stessi dei non erano nulla più d’una delle sei classi di esseri senzienti soggetti alla legge del karman e prigionieri nel samsara.

Nonostante ciò, l’idea d’un giudice divino prese piede in queste tradizioni, trovando raffigurazione in Yama.

I buddisti, per rendere accettabile Yama come giudice divino, l’hanno ‘re-interpretato’ come un’incarnazione delle stesse forze dell’impermanenza e del karman, mentre conduce le anime nello stato intermedio della rinascita.

Nonostante ciò, per un ‘vero’ buddista, Yama è nulla di più d’un illusione creata dalla mente. Questo poiché l’unica realtà esistente è la consapevolezza. Tutto è consapevolezza; noi tutti siamo nulla, ma consapevolezza.

Una consapevolezza radiosa capace di riunire i tre corpi buddici in Uno, trovando in essi la sua stessa essenza (Bar-do Thos-grol Chen-mo[59]).

L’Induismo, conviene col Buddismo, nell’indicare la consapevolezza come mezzo atto al raggiungimento della liberazione (Bagavad Gita).

[1] Zosimo di Panopolis (III secolo d.C.), Memorie Autentiche, capitolo V.

[2] Il Libro della Sapienza fornisce una prova del ruolo predominante esercitato dalla cultura greca sulle altre tradizioni del tempo. Esso confuta, assieme a quanto verrà detto infra, la tesi di chi sostiene l’origine egiziana delle credenze sull’immortalità dell’anima e la metempsicosi.  Non a caso, il Libro della Sapienza non fu scritto in ebraico e/o aramaico e/o egiziano. Esso fu scritto in greco, assorbendo concetti propri del pensiero greco (non egiziano).

[3] Nesamah indica il ‘respiro’; ruah lo ‘spirito’.

[4] Per ‘canonici’ mi riferisco al Canone Ebraico (non da fraintendere col Canone Cristiano-Cattolico).

[5] Qabbalah significa tradizione.

[6] Chiamato in sanscrito: samsara.

[7] Cakka in pali; cakra in sanscrito.

[8] La trasmigrazione è governata dalla legge del karma.

[9] In sanscrito avidia; in pali avijja.

[10] La genesi interdipendente (pratityasamutpada in sanscrito; paticcasamuppada in pali) prevede dodici anelli/fattori. Essi, usando i termini pali, sono: avijja (la nescienza); sankhara (le formazioni karmiche/predisposizioni); vinnana (la coscienza); namaupa (il nome e la forma); salayatana (le sei basi sensoriali); phassa (il contatto); vedana (la sensazione); tanha (la brama); upadana (l’attaccamento); bhava (l’esistenza e/o il divenire); jati (la nascita); jaramarana (il decadimento e la morte).

[11] All’interno dello Zoroastrismo, exampli gratia, c’è una forte influenza vedica. Un esempio per tutti: il concetto vedico di Soma è ripreso col nome di Haoma.

[12] Exempli gratia: Ptah era legato a Menfi; Ra ad Eliopoli; Thot ad Ermopoli; Min a Copto; etc… .

[13] Exempli gratia, quando il ‘culto solare’ di Eliopoli (Ra) s’affermò su quello di Menfi (Ptah-Atum), Ra assorbì in sé Atum. Al tramonto Ra prendeva il nome di Atum; al mattino quello di Khepri.

Successivamente, durante il Medio Regno, quando Ammone fu scelto come ‘divinità propria’ dai nuovi Faraoni, il culto di quest’ultimo fu integrato e fuso con quello di Ra. Nacque: Ammon-Ra. In questo modo, il passaggio da un culto all’altro, fu reso “indolore” ed accettabile dai Sacerdoti e Popolo.

Di contro, imporre nuovi culti senza integrarli coi vecchi conduceva a drammatici fallimenti e forti resistenze. Esempio storico è dato dal culto di Aton avvenuto durante il regno di Amenofis IV (Ekhanaton). Il Faraone, tentando di soppiantare ogni precedente culto, non integrò il nuovo coi precedenti. Ciò produsse forti resistenze che, alla morte di Amenofis IV, portarono alla restaurazione dei precedenti culti.

[14] Il Cristianesimo, per affermarsi come nuova religione, usò gli stessi meccanismi di fusione ed integrazione coi precedenti culti, assorbendone iconografie e tradizioni. Ciò avvenne sia livello ‘generale’ che ‘locale’. Un esempio ben conosciuto è l’assorbimento del culto solare del Sol Invictus nella festa del Natale. Altri, possono essere trovati in molte ‘feste religiose’ locali. Quest’ultime, cristianizzavano il culto pagano del luogo, sostituendo alla divinità locale: un Santo; e/o una Madonna. Questi processi di fusione avvennero pure in Oriente. Un esempio è dato dal buddismo Mahayana. Più si diffondeva nel continente Asiatico, più assorbiva i culti preesistenti. Ciò portò alla creazione d’un variegato pantheon (e molteplici forme devozionali) che, in base agli insegnamenti di Buddha, sarebbero rimaste inspiegabili.

[15] A partire dal 1700/1800.

[16] Oltre a quelli ebraici, greco-romani, etc… .

[17] Tale simbolismo fu ripreso pure nell’iconografia d’alcune chiese medioevali. Ricordo quella inglese di Barton vicino a Cambridge.

[18] Cancellare i nomi nell’Aldiquà, significava ‘uccidere’ l’anima nell’Aldilà.

[19] Ciò condusse l’esigenza di mummificare.

[20] L’offerta di cibo e di bevande fu ‘trasmutata’ nella recitazione di formule e preghiere.

[21] Altri elementi egiziani ampiamente ‘celebrati’ sono relativamente tardivi. Il libro dei morti iniziò ad accessoriare le tombe a partire dalla XVIII dinastia. Le ‘famose descrizioni’ dei ‘viaggi’ fatti dai defunti col Sole verso il Tribunale Divino presieduto da Osiride compaiono nel Nuovo Regno.

[22]Exempli gratia, Ammon-Ra fu identificato con Zeus. Un’identificazione affermata già da Alessandro Magno. Quest’ultimo attribuì a Zeus la paternità divina che l’Oracolo di Ammon-Ra gli riconobbe. Alessandro disse d’essere figlio di Zeus, non c’erto d’un Ariete! Thot fu identificato con Hermes creando una delle figure più ambigue dell’esoterismo Occidentale.

[23] Inclusi quelli “ereditati” da altre culture.

[24] Il simbolismo egiziano domina pure l’architettura della massoneria Americana. Esso si riflette: sull’urbanistica della città di Washinton; sulle cerimonie di posa delle ‘prime pietre’ d’alcuni dei più importati ‘edifici pubblici’ (Campidoglio; Pentagono; etc…); sulla forma del Pentagono che richiamerebbe Sirio; sul mausoleo della tomba di Washinton; sulla sede del Supremo Consiglio della Giurisdizione Meridionale del Rito Scozzese Antico ed Accettato degli USA.

Il George Washington Massonic National  Memorial fu costruito ad Alessandria (una città a pochi chilometri da Washington) rievocando l’architettura del ‘Faro di Alessandria’. La sede del Supremo Consiglio, sebbene imiti il mausoleo di Alicarnasso, ha al suo ingresso due Sfingi che rappresentano la Saggezza ed il Potere. Dinanzi al petto della “sfinge della saggezza” troviamo l’immagine di Iside. Dinanzi a quella del Potere, l’immagine della “chiave della vita”. Nell’atrio ci sono due statue egizie di scriba seduti.

Sul thema sono stati scritti numerosi libri e trasmesse pure, nell’ultimo decennio, alcune trasmissioni televisive in diversi Paesi. In Italia, exempli gratia, alcuni aspetti citati in questa nota sono stati trattati da Voyager, Rai Due.

[25] L’importanza della Parola nella religione egiziana è testimoniata dal papiro ritrovato dal faraone Shabaka nel tempio di Ptah a Menfi durante l’ottavo secolo a. C.. Il papiro, risalente al 3400 a.C., afferma come il dio unico, Ptah, realizzò la Creazione mediante la Parola. Un altro elemento assorbito e rielaborato dalla tradizione Cristiana nel Vangelo di Giovanni, ove è usato il termine greco Logos e, successivamente tradotto in latino, Verbum.

[26] Veda significa “saggezza/conoscenza”.

[27] Veggente, Saggio. Titolo tradizionalmente usato come appellativo per i sette veggenti che ricevettero la rivelazione dei Veda trascrivendola in versi. I sette rsi furono associati alle sette stelle dell’Orsa Maggiore. Risale, invece, ai Brahmana l’identificazione di questi con alcuni nomi d’antichi Saggi.

[28] La ricostruzione “mitica” semplifica le “dinamiche storiche” attraverso le quali i Veda presero forma.

[29] Questo termine indica la raccolta dei mantra (versetti) senza i “commenti”. In altre parole, indica i soli quattro Veda: Rg-Veda; Sama-Veda; Yajur-Veda; Atharva-Veda.

[30] I brahmana sono commenti in prosa che spiegano: la dottrina del sacrificio (yajna) e dei culti; e trattano le dispute dottrinali avvenute fra i brahmana (sacerdoti) sull’interpretazione dei Veda.

Molti sono stati scritti dopo la samhita. Per tanto, potrebbero non riflettere il senso originario dei primi. Come spesso accade, i testi successivi ri-elaborano tradizioni e riti antecedenti per legittimare l’emergere di nuovi culti. Mutato significato al significante, l’Antico è “trasmutato” in un legno d’Epeo utile per legittimare l’ascesa del Nuovo. Un trucco da prestigiatore fatto per celare al popolo la natura “arbitraria” su cui si fonda il Nuovo che viene imposto.

[31] Gli Aranyaka sono un corpus di riflessioni segrete fatte dai brahmana nella solitudine della foresta. E’ un corpus letterario legato all’ascesi, condiviso da chi si dedica ad essa.

[32] Le Upanisad sono insegnamenti condivisi colla casta dei guerrieri/nobili (ksatriya) incluse le donne.

Gli insegnamenti riportati sono impartiti dagli stessi ksatriya. Quest’ultimi, dialogando con i Brahmana, forniscono ai sacerdoti conoscenze sconosciute alla loro casta.

I sovrani (nelle Upanisad) spesso si rivelano depositari di conoscenze segrete atte a svelare la vera essenza dell’Atman. Vedere: Brhadaranyakopanisad; Chandogyopanisad; Kausitakyupanisad.

[33] Letteralmente “parti/membra dei Veda”. Chiamati nel loro insieme smrti (memoria). Questi testi trattano diversi argomenti: la metrica; il rituale; l’astronomia; l’etimologia; la fonetica; la grammatica.

[34] Intesa come Rivelazione ricevuta in illo tempore.

[35] Parola di etimologia complessa ed incerata, che come psyche, è messa in relazione col respiro. I sostenitori di tale tesi ritengono che derivi dalla parola indo-germanica atmen (respirare), dalla quale derivò pure la parola greca atmos (respiro). Altri, di contro, la mettono in relazione con la radice tan (estendere). Secondo quest’ultimi, l’atman sarebbe “l’estensione del soggetto” che rivolgendosi su se stesso diventa riflessivo. Questa interpretazione è basata sulla forma grammaticale assunta dalla parola che appunto in sanscrito è un pronome riflessivo. Altri, hanno ipotizzato una fusione tra le radici di sat (essere) e man (mente/pensiero).

[36] Ci si riferisce all’atman universale con termini differenti. Exampli gratia: Mahatman; Mahan Atman; Paramatman. Una concettualizzazione che oscilla dall’astrazione filosofica all’identificazione con un Essere Supremo (di volta in volta identificato colla divinità di riferimento d’una particolare tradizione: Visnu; Shiva; etc…).

[37] Idam significa questo e si contrappone a Tad (Quello). Questi due termini esprimono la contrapposizione fra l’individuale e l’universale che è superata nel processo identificativo dell’Atman col Brahman.

[38] Il primo dei Mahavakya esprime l’identificazione del Particolare coll’Universale. Con Tad s’intende Tad Eka, l’Uno privo di nome. Esso recita: Tad tvam asi (Chandogyopanisad, VI, 8, 7): “Quello sei tu”.

Gli altri tre Mahavakya sono:

Aham brahmasmi (Brhadaranyakopanisad, I, 4, 10 ): “io sono il Brahman”.

Prajnanam brahma (Aitareyopanisad, V, 3): “la Coscienza è il Brahman”.

Ayam atma brahma (Mandukyopèanisad, 2): “questo atman è il Brahman”.

[39]Yo ’ham so ’sau yo ’sau so ‘ham”.

[40] Il rapporto dialogico ricorsivo espresso dalla frase “Lui è ciò che Io sono, Io sono ciò che è Lui” è presente pure nella tradizione alchemica greca. Nella Collection des Anciens Alchimistes Grecs é riportato un testo del II/III sec. d.C. che attribuisce ad Iside, mentre istruisce Horus, le seguenti parole: “… affinché tu sia lui e lui sia te”.

Conformemente a Festugiere (1950/1954), l’“opuscolo di Iside a Horus” potrebbe essere tratto “dalla Fisica di Ermete” e letto assieme alla Kore Kosmou ed altri testi del Corpus Hermeticum.  Una traduzione italiana del testo è riportata in: I Meridiani, Alchimia (a cura di Michela Pereira), Milano: Mondadori Editore (da pagina 30 a pagina 34, numeri arabi).

[41] E’ opinione diffusa che il mantra OM (AUM) abbia origine proprio dalla ripetizione della forma contratta di questo mantra: “so ’ham” (Io sono Lui). Nella ripetizione rituale, l’elisione dei suoni consonantici “s” ed “h” produsse il suono OM. Secondo tale interpretazione, il mantra OM racchiude l’identificazione tra l’Atman individuale (Jiva) e l’Atman Universale (Mahatman).

[42]Né è per amore dei Mondi che i Mondi sono amati, ma piuttosto per amore dell’Atman.

Né è per amore degli dei che gli dei sono amati, ma è piuttosto per amore dell’Atman.

Né è per amore delle creature che le creature sono amate, ma è per amore dell’Atman.

Né è per amore del tutto che il tutto è amato, ma è per amore dell’Atman”.

(Brhadaranyakopanisad, II, 4, 5).

[43]Non è per amore di un marito che il marito è amato, ma piuttosto per amore dell’atman. Né è per amore di una moglie che una moglie è amata, ma piuttosto è per amore dell’Atman”( Brhadaranyakopanisad, II, 4, 5).

[44] La letteratura greco-romana condivide con quella indoariana una pluralità d’immagini allegorie. Ad esempio, Yama descrive l’Atman usando l’allegoria dell’Auriga (Kathopanisad) utilizzata anche da Platone.

[45] Yama, oggigiorno, rappresenta il dio della Morte nell’Induismo e Buddismo.

Spesso è raffigurato coll’aspetto “mostruoso”, mentre tiene tra le sue fauci la ruota della reincarnazione, oppure come Giudice con Citragupta come scriba. Nonostante ciò, originariamente, Yama non era: né il Giudice delle anime; né la personificazione della Morte. L’Atharva-Veda ci riporta la sua primiera identità, colui che per primo: morì tra i mortali; s’incamminò per “quel mondo”.

[46] Al Discorso può aggiungersi la descrizione delle pratiche psico-fisiche sviluppate dagli Orientali per agevolare l’ottenimento della liberazione.

[47] Già influenzato dalla cultura egiziana.

[48] Exempli gratia, il Cristianesimo porta su piano metafisico le ‘tre condizioni’ richieste dalla religione Egiziana per la sopravvivenza dell’anima. La conservazione del corpo fisico tramite la mummificazione, richiesta dal legame indissolubile esistente tra il corpo e l’anima, è sostituita dalla risurrezione del corpo durante il Giudizio Universale. Il ruolo di viatico rivestito dall’offerta di libagioni è soppiattato dalle opere compiute dall’uomo durante la sua vita, congiuntamente all’azione esercitata dalla Gratia di Dio. La conservazione del nome da trascrivere nell’Aldiquà è rimpiazzata dalla trascrizione nel Libro della Vita custodito da Dio.

[49] Il Cristianesimo è sempre stato una religione eclettica basata sull’et … et …, mai sull’ outout … . Una caratteristica condivisa col Buddismo, essendosi basato anch’esso sull’ etieti…, mai sul nitiniti … . Ciò favorì l’assorbimento e la rielaborazione delle idee circolanti al tempo nel bacino mediterraneo.

[50] La dottrina della resurrezione dei corpi trova la sua origine nel Nuovo Testamento colla resurrezione di Cristo. Essa costituisce una delle “verità fondamentali” del Cristianesimo (San Paolo, Lettera agli Ebrei; catechesi Cristiana). Nonostante non abbia ricevuto ampia trattazione nei Vangeli Sinottici (eccetto pochi passaggi, e.g. Marco 12, 18-28), fu thema molto caro all’evangelista Giovanni (5, 28-30) ed a San Paolo. Quest’ultimo, per primo, svilupperà nelle sue lettere la sua dottrina.  San Luca ne parlerà negli Atti degli Apostoli (24,15) scrivendo circa “la resurrezione dei giusti e degli ingiusti”.

[51] Dante Allighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto III, Verso 10.

[52] Dante Allighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto III, Verso 9.

[53] Termine che assume diversi significati. Nell’Hinayana indica il Buddha futuro; nel Mahayana è epiteto d’una pluralità d’esseri illuminati che hanno scelto di rinunciare al Nirvana per restare nel Mondo ad aiutare gli altri al raggiungimento della salvezza. Nel Pantheon – Mahayana sono annoverate molte Boddhisattva tra le quali cito: Avalokitesvara; Maitreya; Manjusri.

Nel testo, il termine è stato usato con questo secondo significato.

[54] La rinuncia della Boddhisattva ad entrare nel Nirvana, per salvare le creature rimaste nel Mondo, è uno dei paradossi del Mahayana. La Boddhisattva decide di rimanere nel Mondo, sapendo di non poter salvare nessuno, poiché solo da solo l’essere senziente può conquistarsi la salvezza.

[55]Semplicemente … le anime non sono create prima dei corpi, ma sono create contemporaneamente al corpo essendovi infuse”.

[56] Papa Francesco (il 19 Settembre 2014, durante un omelia) ribadì proprio questi concetti. Egli rilevò com’è tendenza comune pensare solo all’immortalità dell’anima, augurandosi che questa vada in Paradiso. Di contro, pochi mantengono la consapevolezza della resurrezione del corpo. Il Papa, pur riconoscendo la difficoltà che oggigiorno c’è nel comprendere questo concetto, ri-affermò la sua centralità nella Rivelazione Cristiana.

[57] Di contro, esso privò l’anima del suo significato originale di “soffio vitale, assorbito dal concetto di spiritus.

[58] Che attendeva un Messia capace di liberare il popolo eletto per creare un Regno Messianico nella Storia.

[59] Libro Tibetano dei Morti.

Qualcosa sulla Riforma Universitaria del 3+2

Uno dei motivi che ha fatto abbandonare all’Italia il Vecchio Ordinamento per passare al nuovo 3 + 2 è stato quello di voler “uniformare” il Sistema Italiano a quello Europeo. Nel far questo, gli Italiani ne sono usciti fortemente svantaggiati rispetto ai loro colleghi europei che, studiando di meno, hanno (di contro) un più celere accesso alle professioni!

Vi porto come esempio il Sistema Inglese.
In Inghilterra la Laurea Triennale è chiamata Bachelor. Questo, in base alle materie studiate, può essere: in Arts; in Sciences; in Social Sciences; in Engineering; etc… . Di solito, il numero di materie e di ore di lezione è minore rispetto a quanto fatto nelle corrispettive Lauree Triennali Italiane. Nonostante ciò, conseguito un Bachelor, lo studente può accedere alla libera professione (e.g.: avvocato; psicologo; etc…) senza necessità di fare: alcun Master (annuale e/o biennale); alcuna Scuola di Specializzazione dopo il conseguimento di Masters Biennali. In altre parole, una persona, con una loro Laurea Triennale (Bachelor), può fare quello che in Italia può fare SOLO dopo aver conseguito una Laurea Specialistica.

Ricordo come la Nostra Laurea Specialistica corrisponde ad un loro Master Biennale. Non solo, quest’ultima è un Graduate Course molto più impegnativo di molti corrispettivi Inglesi. Infatti, la Nostra Laurea Specialistica prevede due anni di: coursework; research. A Genova oltre alla Tesi alcuni Corsi di Laurea richiedono anche una Tesina. Di conto, in UK, i Master si suddividono tra quelli che richiedono solo coursework (M.A.; M.Sc.); e quelli che prevedono solo research. I primi sono annuali. I secondi possono essere: annuali (M.Phill); o biennali (M.Litt.). I primi prevedono una tesi di 30.000/40.000 parole; i secondi una tesi di 60.000/80.000 parole. E’ da precisare, però, come il Sistema Inglese non sia omogeneo. Il nome dei Masters,  ed il numero delle parole richiesto per la tesi, può variare da Università ad Università. Alcuni Master sono Ibridi prevedendo sia Coursework sia Research. Questi, contrariamente alla Laurea Specialistica, sono di durata annuale. Non solo, la dissertazione in questi casi è ridotta a ciò che in Italia è chiamata Tesina: uno elaborato di 10.000/18.000 parole. Il Ph.D (o D.Phill ad Oxford) corrisponde al Dottorato in Ricerca. Esso prevede una tesi di 80.000/100.000 parole.

Qualora si voglia conseguire una “seconda laurea”, in UK, si può semplicemente seguire un diploma di conversione di durata annuale.

In altre parole, un soggetto può accedere alla libera professione in tempi assai ridotti rispetto a quanto avviene in Italia. Una volta ottenuto l’accesso alla professione, può esercitare in qualsiasi Stato dell’Unione Europea (inclusa l’Italia). In tale Mercato, gli Italiani ne escano svantaggiati. I Governi, attuando politiche “auto-lesioniste”, hanno attribuito ben poco valore alle Nostre Lauree Triennali. Inoltre, hanno portato le Nostre Lauree Specialistiche (biennali) ad essere considerate dal Mercato meno d’un Master annuale conseguito in U.K.!! Per finire, hanno ridotto i posti per i Dottorati in Ricerca ad un numero così esiguo che l’accedervi è come vincere alla lotteria! Questo obbliga i migliori studenti (… soprattutto chi ha la possibilità economica…) ad andare all’estero.

Di certo, le diverse riforme fatte sul 3+2 non hanno portato alcun miglioramento.

Università di Genova. Ecco come gli Esperti della Formazione valutano gli studenti!

Qualcosa d’anomalo accade al Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova durante gli esami finali delle Lauree Triennali. Nonostante la Commissione di Laurea debba (… in base ai Regolamenti …) valutare due elementi: una prova scritta, costituita dalla tesi; ed un viva voce, costituito dalla discussione orale; … per assegnare i punti a sua disposizione, risulta accadere tutt’altro. Gli Esperti Educatori hanno ribaltato l’Ordine Naturale, Ontologico e Giuridico, dell’esaminazione procedendo: prima, a deliberare i punti da assegnare ai candidati; e solo poi, fargli recitare la discussione orale per salvar le apparenze!

Per Antica Tradizione, norma giuridica e la stessa Natura delle Cose, … l’esame finale d’una Laurea può essere suddiviso in almeno quattro fasi, per necessità, cronologicamente conseguenti l’una all’altra.
La PRIMA fase è costituita dal lavoro di ricerca e di redazione della tesi sotto la supervisione d’un Relatore.
La SECONDA fase è realizzata colla discussione orale della tesi d’innanzi a una Commissione d’Esperti. Una fase centrale (e soprattutto necessaria) per valutare la capacità del Candidato: a difendere ed ad argomentare le proprie affermazioni; ed illustrare alla Commissione il lavoro fatto.
La TERZA fase è costituita dalla riunione in Camera di Consiglio della Commissione per assegnare al Candidato i voti a sua disposizione. Fase che necessariamente deve conseguire alla discussione orale.
La QUARTA fase è costituita dalla lettura pubblica della delibera con la quale si conferisce il titolo di Dottore.

Ora accade che al Dipartimento di Scienze della Formazione sia stata “lanciata” una nuova moda! Gli Esperti Educatori, per dare una sferzata di modernità al Sistema e “rompere” col Passato, hanno preferito anteporre la TERZA fase alla SECONDA. In altre parole, prima valutano il candidato assegnandogli i punti a loro disposizione, poi gli fanno “recitare” la discussione orale. Terminata la discissione, procedono direttamente alla lettura del verbale precedentemente deliberato.
Ora mi chiedo: che cosa valutano gli Eccellenti Membri della Commissione quando deliberano prima della discussione orale? Possiedono loro facoltà medianiche (di cui non siamo a conoscenza) tali da poter leggere nel Futuro?
Sebbene a queste domande Io NON sappia dare risposta, una cosa so per certo. Se l’esame è sia scritto che orale … è evidente che almeno una delle due componenti non è stata considerata e valutata!
Questa è una lesione dei diritti degli studenti. Ricordo come un voto di laurea non sia indifferente ad un altro. La differenza d’un punto può, exempli gratia, causare l’impossibilità di poter partecipare ai concorsi pubblici. Non solo, nei corsi di Laurea a numero chiuso può: precludere l’accesso alla Laurea Specialistica; oppure condizionarlo ad un esame d’ammissione. Ancora, può precludere: all’accesso ad alcune Università piuttosto che altre; e/o all’ottenimento di borse di studio. Questo è ancora più grave quando la Commissione, molto arbitrariamente, arriva ad assegnare ai Candidati “zero” punti tra quelli a sua disposizione, senza nemmeno ascoltare la discussione orale ed acquisire conoscenza del lavoro!
L’esame di Laurea è un momento importante per gli studenti. Essi, dopo aver approfondito per mesi (… se non talvolta per anni …) un argomento di loro interesse, hanno tutto il diritto d’essere ascoltati da una Commissione attenta ed interessata. Non certo da una Commissione che, avendo già deliberato, assiste annoiata allo spettacolo, ricordando allo studente che la “recita” non deve superare i cinque minuti! Chi sceglie d’insegnare in Università dovrebbe essere appassionato ad: ascoltare le idee degli studenti; incentivare lo spirito critico-riflessivo; animare le discussioni. Queste caratteristiche dovrebbe essere parte della sua missione e vocazione. Di contro, avrebbe potuto scegliere un’altra professione (dove le discussioni siano assenti). Per esempio, la carriera militare. Di certo, lì non sarebbe stato infastidito da tali “incomodi”.
Ricordo come la discussione orale sia la fase centrale e fondamentale dell’esame finale. Solo qui: da una parte, il candidato può dimostrare la sua capacità a saper difendere le tesi sostenute; dall’altra parte, i membri della Commissione possono acquisire conoscenza del lavoro fatto dal candidato. Infatti, non è un segreto che molti commissari (e.g. per assenza di tempo) non hanno la minima idea del lavoro fatto dai candidati. Ben pochi leggono le tesi di cui non sono relatori. Quindi, che cosa valutano gli Illustri Membri della Commissione quando deliberano prima della discussione orale? Decidono su “voci di corridoio”? Su “rumori” diffusi da “borbottii”? Oppure sulla simpatia e/o antipatia che hanno per un Candidato piuttosto che per un altro?

Ridurre l’esame orale ad una “buffonata” da recitare a “cose fatte” è sintomatico del degrado sociale che sta accadendo oggigiorno. Sempre più spesso le decisioni sono prese per convenienza e/o per interesse. Esse sono antecedenti agli stessi processi decisori (e.g.: processo giuridico; procedimento amministrativo; valutazione psicologica; etc…) attraverso i quali dovrebbero (di contro) essere assunti, in contradittorio delle parti interessate, gli elementi valutativi su cui basare la decisione. D’altronde, se la decisione è presa per convenienza e/o interesse che bisogno c’è d’aspettare d’assumere elementi oggettivi all’interno d’un contradittorio delle parti! Ciò diventa un inutile “incomodo”! Una terribile “seccatura”! Un qualcosa da ridicolizzare; ridurre a farsa; … farlo, … se proprio tocca …, solo per salvare l’apparenza.
Per tali motivi, molte persone ormai assuefatte a tali pratiche esclamano semplicemente: che problema c’è?!
Il problema c’è, eccome! Essendo sintomatico proprio del degrado sociale.

Cosa diversa è chiederci: cosa può fare uno studente quando cade vittima di queste pratiche illecite e vuole, … mosso dal suo Ingenuo Entusiasmo …, combattere un Sistema Corrotto e Marcescente?
Qualora uno studente non sia contento di ciò, e/o abbia ritenuto lesi i suoi diritti, può impugnare la delibera della Commissione di Laurea proponendo: un Ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (entro 60 giorni); e/o un Ricorso Straordinario al Capo dello Stato (entro 180 giorni). La delibera, infatti, è un atto amministrativo che per vizio di legittimità (nel caso: violazione di legge) diventa annullabile su richiesta dell’interessato. Una volta annullata, lo studente ha diritto d’essere ri-esaminato conformemente alle regole.
Questa è la teoria. Il diritto di carta che mai diventerà un diritto reale. Infatti, una procedura legale richiede ingenti esborsi di denaro. Cosa che in se e per se la preclude a priori agli studenti. Non solo, bisogna trovare poi un avvocato che sia: capace a sostenere il caso; ed interessato a presentarlo con entusiasmo. Entrambe cose che richiedono tanta, e ribadisco tanta, FORTUNA!! In seguito, presentato il ricorso, si devono aspettare anni (se non decenni, qualora si necessiti di passare per più gradi di giudizio) prima d’una sua definizione. Alla fine, vinto il ricorso, lo Studente deve essere ri-esaminato. Purtroppo per lui, a questo punto, per aver osato esercitare un suo diritto sarà considerato un “Rompi Scatole” di “Prima Classe”. Cosa che non gli agevolerà di sicuro: “la vita” in generale; ed una “ri-esaminazione imparziale”. Gli accademici, infatti, almeno per disincentivare altre forme di protesta da parte degli studenti (preferendo avere a che fare con greggi di “zombi silenti” piuttosto che di “rompi scatole” pronti i rilevare ogni loro mancanza) lo metteranno metaforicamente “ai ceppi” in modo tale da render chiaro a tutti i restanti che: “tacere e subire” conviene piuttosto che “parlare e protestare”. D’altronde la Gerarchia Sociale si basa su questo!
Se poi lo studente si trova in corsi dove ci sono degli Psicologi, può star certo che questi, una volta “pescati” oggettivamente con le “mani in pasta”, per sviare l’attenzione dai fatti oggettivi si metteranno ad accusarlo d’ogni “disturbo mentale” possibile. Essi applicheranno una versione moderna dell’antico stratagemma d’attacco ad personam (collaudato sin dai tempi di Freud) attraverso il quale, diffamando il soggetto si cerca di sviare l’attenzione dai fatti oggettivi verso fantasie create da questi ad hoc. Non solo, grazie ad esso, ottengono un altro effetto: quello d’isolare socialmente il soggetto. Chi si metterebbe ad appoggiare uno “ribelle” definito per di più da un “esperto psicologo” come “mentalmente disturbato”?
Così alla fine, non potendo negare e/o controbattere i fatti oggettivi, questi inducono lo studente (che osò sfidare la Corruzione e l’Illegalità del Sistema) ad abbandonare il ricorso proposto. Abbandonato il Ricorso, per magia, i fatti oggettivi sono fatti svanire. Le irregolarità esistono solo, e solo se riconosciute da un Giudice. In assenza d’una sentenza, non sono mai esistite e/o accadute!

Per tali motivi non suggerisco a nessun: di fare alcunché di legale; e/o protestare dinanzi all’ineluttabile decadenza del Sistema. Di contro, nel caso in cui i Rappresentati degli Studenti abbiano voglia di difendere i diritti di quest’ultimi, questi potrebbero tentare un “azione politica” all’interno degli Organi dell’Università per modificare tali prassi. Il punto è: dove sono finiti i Rappresentanti degli Studenti del Dipartimento? Che cosa stanno facendo? Sono tutti troppo intimoriti per osar parlare?
Il loro silenzio di certo spiega poiché la stragrande maggioranza non vada a votarli.

Concludo dicendo: non fraintendete questo Post. Con esso, non dico che in Italia le cose vadano peggio che all’Estero! Non è così. All’Università di Cambridge, ad esempio, ho visto accadere irregolarità e violazioni ben peggiori di queste (fatte con tutt’altra intenzionalità). Qui le cose sono largamente migliori. Le stesse violazioni, quando accadono, spesso conseguono innocentemente ad un eccessivo carico di lavoro subito dai nostri docenti. Exempli gratia, fanno assai molte più ore di insegnamento rispetto ai loro colleghi stranieri (e.g. Inglesi. A Cambridge un docente fa raramente più di due ore di lezione a settimana). Quindi, ho deciso di spezzare una lancia a loro favore, ma non tutte. Pur riconoscendo che tale prassi sia conseguita: all’assenza di tempo; alla stanchezza per l’eccessivo lavoro; alla loro più lunga esposizione (per maggior età) alla “corruzione” del Sistema; … ritengo che si possa ripristinare l’Antica Tradizione Italiana di valutare lo studente solo dopo un attento ascolto della discussione orale. D’altronde l’Italia, non era il Paese della Cultura?

De Anima – Parte I

Per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua e dall’acqua si genera l’anima

Eraclito, Frammenti

RationaleIl ravvedimento di Psiche-primopiano 

L’oggetto della Psicologia è lo studio scientifico del comportamento e dei processi mentali (Smith et al., 2006). Una definizione diversa, più fedele all’etimologia del termine, potrebbe sviare. Definire la Psicologia come lo “studio della psyche” comporta il problema di capire cosa significa “psyche” (Cornoldi e Tagliabue, 2004; Vicario, 2001). Un’indagine etimologica, un’analisi del termine, è poco utile per comprendere l’oggetto dell’attuale Psicologia, potendo un significante assumere infiniti significati diversi, col fluire del Tempo, in virtù del rapporto convenzionale esistente fra rappresentate e rappresentato.

Di contro, ricercare il significato originario del termine psyche potrebbe fornirci un’informazione diversa: capire se l’attuale Paradigma della Psicologia, nel suo divenire storico, abbia perso la capacità di studiare e di riflettere la realtà profonda che l’era anticamente attribuita, rispetto la quale, oggi, sia divenuta simulacro a là Baudrillard (1981).

L’ipotesi d’una realtà profonda perduta è confermata dall’analisi storica del pensiero occidentale sull’argomento. Ad esempio, all’interno della cultura greco-romana si riteneva che chi sceglieva i “beni dell’anima/psiche” prediligeva le “realtà più divine”, mentre chi preferiva i “beni corporei” eleggeva quelle “più umane” (Democrito). Un’idea rimasta stabile, pur nelle vicissitudini storiche, culturali e religiose, fino al 1700 quando fu ribaltata dall’Illuminismo. Fu durante il “così detto” secolo dei “lumi”, che Psiche passò dal rappresentare: le “realtà più divinea quelle “più umane”.

Una testimonianza di questo mutamento è stata fornita da Comte. L’autore asserì la psicologia essere l’ultima evoluzione della teologia. In altre parole, la Psicologia fu vista come lo stadio positivo della Teologica. Questo confermò la tendenza del tempo di privare i costrutti (… quali quello di psyche/anima…), d’ogni elemento metafisico al fine di ricondurli a phenomena empirici, osservabili cogli strumenti del tempo.

Un “passaggio” di significato che condusse psyche a diventare simulacro rispetto al rappresentato originario. Un rappresentato che non poteva essere studiato e rilevato con i limitati “strumenti del tempo”. Ecco come psyche, perdendo ogni altro significato, divenne sinonimo di: pensiero; intelletto; emozione; comportamento. Psiche però era altro rispetto a: mens; intellectus; intelligentia; ingenium; motus; affectus; etc… .

Dietro ad un apparente processo evolutivo, acclamato dal Pensiero Unico, si consumò parimenti un processo devolutivo che portò psyche a svuotarsi di grand parte del suo significato, finendo (rispetto ad esso) ad essere un simulacro a là Baudrillard (1981).

Un processo di “simulacrizzazione” accentuato dal conflitto che si originò tra: Scienza e Fede. Quest’ultimo, impedì la possibilità di creare, in Occidente, un logos su psyche libero da prese di posizione ideologiche. L’accademia si rifiutò di prendere in considerazione tutto ciò che proveniva dalla Religione. Una disciplina incapace di rispettare la Legge di Hume[1] e per ciò definita fabula, superstizione, stadio primitivo d’un evoluzionismo sociale. Di contro, la Psicologia fu elevata a Scienza, nonostante lo status epistemico fortemente eterogeneo fra le discipline che la costituiscono (Epis, 2011/2015)[2]. Infatti, mentre la Psicologia Fisiologica e la Psicologia Sperimentale hanno piena cittadinanza nel Paradigma Scientifico, altre discipline rientranti nella Soft Psychology[3] ricadono in un “limbo” d’ambiguità, di confusione e d’indeterminatezza. Molte delle loro teorie non possono essere: né completamente corroborate; né completamente confutate (Meehl, 1978). In questo modo si crea un Paradigma contradittorio, co-abitato da teorie opposte, che rendono possibile, di volta in volta, sostenere tutto e l’infuori di tutto. In questo modo ciò che si sostiene, ed il successo pro tempore d’una teoria rispetto un’altra, dipende prevalentemente dagli interessi “politici” (intesi nel senso più ampio possibile) piuttosto che dai fatti oggettivi (Braun, 1966; Gergen, 1973; McGuire, 1973; Meelhl, 1973a, 1973 b, 1978, 1990a, 1990b, 1997a, 1997b; Smith, 1973; Schlenker, 1974; Fiske, 1974; Hogan, DeSoto e Solano, 1977; Mischel, 1977; etc…). Un paradigma che, essendo costituito da un insieme di costrutti incoerenti, sarebbe contradittorio. Ciò significa, conformemente alle le leggi logiche, che è sempre falso. Per chiarire il concetto, prendiamo ad esempio il costrutto della personalità antisociale. Un costrutto nato nel 1800 (con Pinel) al fine di descrivere soggetti violenti e pericolosi, dediti all’attività criminosa, privi di scrupoli e freni morali così d’essere propensi all’uccisione del prossimo. Un costrutto, che proprio per le incoerenze dette supra, presto perse ogni legame con la realtà oggettività dei fatti (l’attività criminosa; la pericolosità sociale; l’indole violenta) finendo in un insieme di tratti di personalità (che sono nulla più di: costrutti artificiali; entità vaghe facilmente manipolabili con l’interpretazione) così da arrivare presto all’incoerenza palesata in letteratura[4] fra le figure antinomiche: dello “psicopatico criminale”; e dello “psicopatico non criminale”. Malgrado entrambi i soggetti “condividano” gli stessi tratti di personalità (!?!?), solo i primi concretizzano comportamenti criminosi, violenti, etc… . I secondi, di contro, sono soggetti “normali”, ben integrati, molto spesso pro-sociali[5]. Un’incoerenza che condusse gli artefici del DSM, grazie all’influenza esercitata dagli psichiatri, ad imporre per la diagnosi della personalità antisociale l’occorrenza d’una oggettiva attività criminosa. Un tentativo disperato al quale seguì un incremento dell’incoerenza. Ognuno iniziò a rielaborare il costrutto a suo piacimento. Alcuni lo scissero in due: quello della personalità antisociale (legato a fatti oggettivi); e quello della psicopatia (legato ai meri tratti). Altri lo elaborarono come un unico costrutto rispetto al quale, le due figure viste rappresentano i due gradi d’intensità dello stesso stato psicopatologico. Inoltre, coll’aumento del numero delle scale diagnostiche, aumentarono le contradizioni nelle diagnosi. Spesso, nella pratica professionale, non si usa neppure alcuna scala. Alcuni professionisti diagnosticano basandosi sulle loro “sensazioni del momento” che poi, in un eventuale controesame, ribattezzano colla più elegante espressione di “esperienza clinica”. Non di rado accade che: prima sia decisa la “diagnosi”; poi, ex post, sono selezionati e reinterpretati tutti gli elementi del caso per farli “forzatamente” combaciare con una scala e/o col DSM. L’apice dell’incoerenza fu raggiunto da Lilienfeld (1994). Egli arriva a fornire (senza ombra di dubbio) una formulazione logica del tipo P E NON P.  L’autore, per le incoerenze dette supra[6], trovò una correlazione positiva tra soggetti diagnosticati psicopatici/antisociali (… con le scale diagnostiche di riferimento…) e la frequenza di comportamenti altruistici (pro-sociali). Difronte a tale contradizione, concluse che il costrutto della psicopatia doveva incorporare il comportamento altruistico ed eroico. Di contro, un sostanziale sottogruppo di psicopatici (dediti al comportamento pro sociale e non criminale) sarebbe risultato un falso-negativo (!) sfuggendo alla diagnosi (!!). In altre parole, l’autore suggerì come criterium diagnostico del comportamento e della personalità antisociale, il comportamento pro-sociale (!!!!). Un insieme d’incoerenze che portarono nel tempo numerosi autori a definire il costrutto di psicopatia come: teoricamente insoddisfacente, praticamente sviante, dannoso al pensiero scientifico (Kinberg, 1946); privo di prove scientifiche e d’utilità clinica, una entità mitica, un giudizio morale mascherato da diagnosi clinica (Blackburn, 1988); un moralismo camuffato da scienza medica (Calvaldino, 1998); un esempio di come i costrutti psicopatologici implodono su se stessi (Epis, 2006); etc… .

Non solo, il problema delle incoerenze (capace di per se a far implodere il Paradigma) è aggravato da un’altra violazione fondamentale. La Psicopatologia viola la legge di Hume allo stesso modo della Teologia, dell’Etica, della Metafisica, del Diritto, etc…[7]. In altre parole, essa sarebbe nulla più d’un giudizio morale (d’un’entità appartenente al mondo normativo) mascherata da Scienza.

La legge di Hume, infatti, è criterium di demarcazione tra ciò che è empirico e ciò che non lo è. Violarla significa attraversare un confine “dimensionale” tra il “regno” della Logica Formale e quello della Logica dei Valori. Mentre nel “primo regno” le asserzioni possono essere valutate in termini di vero o falso ed il ragionamento in termini di valido o invalido, nel “secondo regno” non è possibile. All’interno della dimensione normativa, tutto diventa mera “opportunità politica”, un “gioco di retorica”, una scelta arbitraria. La Logica dei Valori, o Nuova Retorica a là Perelman, non consente alcun controllo sulla validità o verità di ciò che è sostenuto. Semplicemente come facevano i Sofisti, serve solo ad argomentare in modo “razionale” le scelte prese antecedentemente su motivi d’opportunità, e/o interesse politico.

Ciò conduce al paradosso che, non di rado la Psicologia acclamata da Comte come lo Stadio Positivo della Teologia, finisce nel violare gli stessi critera di cui quest’ultima fu accusata. Non solo, molte sue teorie e scuole sono accettate prevalentemente per fede piuttosto che per fatti.

Tutto questo ci porta alle seguenti domande: perché quando una disciplina viola la legge di Hume è da scartare, invece, quando è un’altra a violarla non bisogna neppure dirlo?; è possibile che la “scienza” sia guidata da ideologie ed interessi? è possibile che siano usati pesi e misure diverse?

Queste domande hanno condotto alcuni a dubitare dei paradigmi ufficiali, chiedendosi se questi non siano stati distorti da alcune ideologie pericolose conseguenti il mito del progresso a là Hatch (2006).

Così, per iniziare una ricerca sull’originario significato attribuito a Psyche, partiamo guardando ad Oriente. Una cultura che nei secoli mantenne un legame colle realtà “più divine” di cui parlò Democrito.

Nel pensiero orientale psyche/anima esprime solitamente due dimensioni diverse (seppure ricollegate fra loro): quella del soffio vitale, inteso e descritto come prana e/o Qi; e quella l’essenza spirituale consapevole, identificata prevalentemente coll’Atman[8] e/o Jiva[9].

Esaminiamo brevemente le due accezioni.

Il concetto di soffio vitale è espresso: in sanscrito, colla parola prana; in cinese, con l’ideogramma Qi. Esso identifica l’energia vitale capace di fluire nei canali energetici dell’Uomo, chiamati: in sanscrito, nadhi; in cinese, mai. All’interno della cultura indiana, i tre canali energetici principali sono: ida; pingala; e susumna. Ida è il canale energetico che dalla narice destra porta il soffio inspirato al centro dove viene trasformato da agni (il fuoco). Pingala è il canale ascendente, che traporta il soffio espirato all’esterno attraverso la narice sinistra. Susumna è il canale centrale, attraverso il quale la Kundalini (e/o Ahirbudhnya) risale una volta risvegliata/o. Il pranayama descrive le trasformazioni del soffio vitale: prana; apana; udana; vyana; samana; kumbhaka. Sebbene i nomi cambiano nelle diverse tradizioni, la sostanza dell’insegnamento resta la stessa[10].

Nella cultura cinese, i canali energetici (Mai) si suddividono in due gruppi: i canali speciali (Qi Mai); ed i canali ordinari (Zheng Mai). I primi costituiscono la struttura energetica profonda dalla quale emerge la struttura ordinaria; essi sono otto. Di questi, i tre principali sono: Ren Mai; Du Mai; e Chong Mai. Mentre Chong Mai, il canale centrale, conserva la stessa posizione del suo corrispettivo indiano (susumna), gli altri due occupano posizioni diverse. Ren Mai è il canale anteriore, che dalla bocca va al perineo; Du Mai è quello posteriore, che dal perineo risale fino a ricongiungersi col Ren Mai nel suo punto d’origine. Il fluire del soffio all’interno del circolo formato da questi due canali è detto Piccolo Circolo Celeste. La struttura ordinaria è costituita da 12 canali chiamati Jing. Questi sono molto conosciuti dal pubblico per l’importanza rivestita nell’agopuntura e nello shiatsu.

Il concetto di soffio vitale originato all’interno delle culture derivate dai veda è ripreso all’interno della cultura Greco-Romana. Un corpus d’influenze che raggiunse il bacino mediterraneo colle invasioni indoariane. Non a caso, la parola psyche deriva dalla parola vedica psu che significa “soffio” (Thieme, 1982).

Psu, infatti, indica il soffio vitale nelle parole composte altrimenti chiamato prana.

Detto ciò, cosa sia il prana è oggetto d’ampie discussioni.

Alcuni lo identificano nel Qi del Qi Gong, distinguendo così tra: soffio vitale (Qi); e respiro normale (Xi). Una distinzione condivisa dallo Samkhya-Yoga, il quale la esprime attraverso altri due termini: prana, per indicare il respiro; e vayu, per indicare il soffio vitale. Il soffio vitale (vayu) sarebbe il prana veicolato attraverso i suoi cinque aspetti: prana; apana; samana; vyana; udana.

L’accezione di anima, intesa come soffio vitale, è in ogni caso legata al secondo significato proprio del termine: “essenza spirituale consapevole ed autoriflessiva”. Questa dimensione, presa da sola, è chiamata colle parole: atman e/o jiva. Jiva indica l’anima individuale unita al corpus[11] come affermato dal Manavadharmasastra (capitolo 12, versetto 13). Jiva è il vivente senza il quale “i soffi vitali non possono far muovere il corpo” (Mahabharata, Narayaniya, quinto Adhijaja, versetto 36). Un vivente imprigionato nel corpo all’interno del ciclo delle rinascite (samsara)[12]. Per uscire da tale ciclo, egli ha da raggiungere la condizione chiamata dvija (rinato). Una condizione che non assume alcuna valenza “magica”, essendo definibile operativamente come la capacità di passare: da uno stato dominato dal determinismo, ovvero mosso dagli  input” esterni; ad uno stato dominato dal libero arbitrio, nel quale l’individuo raggiuge la capacità di autodeterminarsi in modo diverso, ed indipendente, dagli input esterni.

La psicologia potrebbe essere “scienza” solo nei confronti del primo tipo di uomo[13]. Di contro, perderebbe valore verso il dvija, capace di libero arbitrio. Per raggiungere la condizione di dvija, il Manavadharmasastra (capitolo 12, 92) indica: “il massimo impegno alla conoscenza del Se, alla serenità interiore”. Il linguaggio usato dai testi antichi (non è da prendere alla lettera) poiché è “criptato” in un codex simbolico. Un codex collo scopo di “scremare” tra chi possa avere accesso e chi no agli insegnamenti[14].

Diventando Dvija si raggiunge il “completamento delle rinascite” (Manavadharmasastra, capitolo 12, 93). In questo modo ci si libera dalla prigionia del samsara.

Il concetto di anima illustrato dal Mondo Orientale è simile a quello Occidentale proprio della Cultura Greco-Romana.

Non a caso, l’etimologia delle parole psyche e anima esprime proprio: il soffio vitale; respiro; vento. Non solo, ad esse fu legata pure l’idea d’essenza individuale immortale.

Quest’ultima era propria: delle dottrine pitagoriche; dei misteri greco-romani (exempli gratia: gli orfici; gli eleusini; etc…); della filosofia platonica; e d’alcune opere letterarie tra le quali (per importanza) cito l’Eneide (libro sesto).

Enea, una volta giunto nell’oltretomba, chiese al Padre Anchise:

O padre, dunque, alcune

Creder si deve che fra i vivi ancora

Torneranno a vestire i grevi corpi?

E quale mai, nei miseri, sì grande

Brama funesta della dura vita?[15]

Anchise rispose:

“ …“Te lo dirò, né ti terrò sospeso

Ed ogni cosa a dire imprese Anchise

Con ordine svelando arcani fati”[16].

Secondo Virgilio, dall’Anima Universale (che può essere vista come Brahaman) s’alligna il principio vitale d’ogni essere vivente (atman).

Un principio vitale che entrato nel corpus vi rimane imprigionato come in un “carcere”. Colla morte del corpus, esso torna nell’aldilà dove, dopo varie vicissitudini, è chiamato da un dio presso il fiume Lete. Qui viene reso immemore di se stesso e delle sue vite precedenti, così da essere sospinto al desiderio di nuova rinascita.

In passato (al di là dei: simboli; nomi; miti; allegorie) non c’erano forti contradizioni sostanziali tra le dottrine Occidentali ed Orientali.

Il cambiamento avvenne quando, in Occidente, la dottrina della metempsicosi fu abbandonata coll’avvento del Cristianesimo. Ogni “esplorazione” delle “realtà più divine” di Psyche fu repressa e combattuta: prima, colle lotte contro le eresie; poi, colla Santa Inquisizione; e per finire, col pensiero illuminista.

Solo in Oriente, “la dimensione metafisica” di psyche fu indagata senza tabù.

Il rigetto Occidentale d’indagare questa dimensione è insensato da un punto di vista razionale. Per logica, nulla esclude a priori la possibilità di questa dimensione. Questo è dimostrato dal fatto che: l’assenza di prova non è evidenza d’inesistenza. Inoltre, la stessa struttura logica sottostante alla ricerca Scientifica, basata su un condizionale materiale (Se P, allora Q) sostiene tale possibilità. Infatti, per logica, si ha un’inferenza falsa solo quando è falso l’antecedente ed è vero il conseguente. Di contro, l’inferenza è valida in ogni altro caso. Questo poiché il conseguente può accadere anche senza l’occorrenza dell’antecedete. In altre parole, possiamo solo dimostrare l’esistenza, mentre non possiamo mai dimostrare l’inesistenza di qualcosa.

Per tali motivi, negare l’esistenza d’ogni aspetto metafisico di psyche sarebbe insensato. Ciò implicherebbe affermare un bicondizionale nella matrice della ricerca scientifica: (Se P allora Q) E (se Q allora P).

L’insensatezza diventa palese traducendolo. Esso affermerebbe qualcosa del genere: “tutto ciò che esiste ed accade nel Mondo esiste ed accade solo, e solo se, è stato provato ed accettato nel Paradigma Scientifico”. Un’affermazione la cui fallacia è evidente a chiunque.

In questo scritto, quindi, si vuole investigare questa “dimensione perduta”. Una dimensione eliminata ed ignorata dalla psichiatria e dalla psicologia (Hillman, 1996) sebbene trattata da molte culture come nucleo centrale: della personalità; e  del destino individuale.

L’ipotesi di lavoro: Psiche come Anima Immortale

I primi a riappacificarsi con la Fede (paradossalmente) sono stati i fisici[17]. Ciò accadde nello scoprire che la concezione meccanicistica del Mondo, caposaldo dell’Illuminismo, era una visione inadeguata per descrivere i fenomeni fisici sub-atomici (Capra, 1975). Questi phenomena, infatti, si rilevarono maggiormente compatibili colle concezioni elaborate dai mistici, definite da Capra (1975): organicismo[18].  Capra (1975) affermò come la nuova concezione della fisica moderna sia simile a quella del misticismo orientale.

Il mistico ed il fisico, procedendo per due direzioni opposte giungono alla stessa conclusione. Il mistico, partendo dall’interiorità, indaga ed esplora i livelli della coscienza. Il fisico, partendo dal Mondo esterno, indaga ed esplora i fenomeni materiali (Capra, 1975). Procedendo per due direzioni opposte, alla fine, entrambi giungono alla stessa conclusione (coincidentia oppositorum). Una conclusione riassumibile nell’identificazione del Brahman coll’Atman (Capra, 1975)[19].

La coscienza, dall’autore, è riconosciuta come oggetto della mistica.

La psicologia occidentale, di contro, s’è rivelata incapace d’andare oltre la concezione meccanicistica ed apparente del mondo.

Da una parte, il comportamentismo, il cognitivismo e le neuroscienze, per affermarsi come discipline empiriche e scientifiche hanno fatto di tutto per rilegarsi all’interno d’una visione meccanicistica.

Dall’altra parte, discipline quali la psicoanalisi sono nulla più di più di: “derive semiotiche”; un insieme di pratiche discorsive basate su interpretazioni retrospettive, fatte attraverso le lenti deformanti d’alcuni costrutti coi quali l’intera Realtà viene reinterpretata conformemente ad essi. Essendo solo pratiche interpretative, tutto ciò che affermano e producono non può essere né convalidato né confutato, allo stesso modo di come non può essere né convalidata né confutata una interpretazione religiosa degli eventi.

La sensazione di riscontro data da tali discipline è mera illusione, puro inganno, creata dagli stessi filtri cognitivi (lenti deformanti) usate per interpretare la Realtà.

Nel Mondo Anglo-Americano, a partire dal Simposio di New York (1958), fu denunciata la superstizione psicoanalitica. Da allora, la psicoanalisi (nella maggior parte delle Università Anglo-Americane) fu bandita dai corsi ufficiali in Psicologia. Ciò portò molte Università a scegliere, per i corsi di studio in Psicologia, curricula d’approccio Cognitivo-Comportamentale. Molti corsi di Laurea, per sottolineare tale approccio, mutarono il nome in Behavioural Sciences.

Di contro, alcune dottrine orientali iniziarono a destare l’interesse accademico d’alcuni ricercatori.

Uno di questi fu Ian Stevenson, docente di psichiatria all’Università della Virginia. Egli fu pioniere nello studio accademico della reincarnazione. Esempio dei suoi studi è fornito dal libro: Twenty Cases Suggestive of Reincarnation (1966-1974).

Stevenson fu definito un investigatore metodologico ed attento capace di provare l’autenticità d’alcuni ricordi di presunte vite precedenti attraverso controfattuali. Un sample di questi ultimi è dato: dalla verifica storica degli eventi raccontati dai soggetti; dalla presenza di marchi somatici nella parte del corpo in cui fu inferta la ferita mortale che pose fine alla nella precedente incarnazione; ed la presenza di fobie per l’“oggetto” che causò la morte nella precedente vita.

Fu rilevata anche una correlazione positiva tra le morti violente e la capacità di ricordare le vite precedenti.

I lavori di Stevenson (e dei suoi collaboratori) fornirono diverse prove a sostegno della reincarnazione nonostante alcuni sostengano l’assenza d’evidenze assolute (Spanos, 1996)[20].

Nonostante ciò, i suoi lavori hanno reintrodotto all’interno della psicologia e psichiatria alcune dimensioni originarie attribuite a Psyche, rimaste per duemila anni un tabu in Occidente.

Obiettivo di questo Saggio è creare un logos introduttivo su Psyche capace di fornire una “mappa” per successivi studi e ricerche sull’argomento.

L’interdisciplinarietà è necessaria in quanto, come affermato da Popper, non esistono confini tra le discipline ma solo domande a cui dare risposte. Rimanendo rinchiusi all’interno dei confini d’una disciplina, sarebbe come voler risolvere una funzione possedendone solo una piccola parte. Inutile dire che, una tale computazione condurrebbe ad un risultato errato.

[1] La legge di Hume impedisce di poter passare dalla dimensione descrittiva a quella normativa.

[2] Vedere: Epis (2011/2015), De Nova Supestitione – Alcune questioni sullo Status epistemologico della Psicologia, Psicopatologia e Psicanalisi. Una versione sintetica, scritta nella forma di Saggio, è stata pubblicata nel 2015 sul sitoweb: www.lukae.it.

[3] che include: la Psicologia Sociale e di Comunità; la Psicologia dell’Educazione; la Psicologia della Personalità; la Psicologia Clinica e Psicopatologia; il Counselling (Meehl).

Di contro la psicoanalisi non rientra neppure all’interno della soft psychology essendo una mera pratica discorsiva, basata su interpretazioni retrospettive, deformate dalle lenti interpretative usate, sfocianti in derive semiotiche.

[4] Che resero infalsificabile lo stesso costrutto, violando così tutti i principia razionali su cui è fondato il Pensiero Scientifico.

[5] Ci sono stati psicologi clinici che hanno visto tratti di psicopatia in personaggi quali Madre Teresa di Calcutta! Essa disobbedì all’Autorità che gli chiese di non curare i fuori casta. Ella non si omologò alla massa ch’era solita disinteressarsi d’essi (mostrando così una certa incapacità ad imparare, tratto tipico dello psicopatico). Ella mostrò pure la “pericolosissima” callosità nel perseverare nella sua disobbedienza. Per finire, quella donna, per fare ciò che voleva, arrivo pure a fondare un proprio Ordine. Che dire, doveva essere veramente “furi”!?!?

[6] E l’effetto del crud factor (per il quale nelle scienze sociali tutto correla con tutto).

[7] La Psicopatologia viola la Legge di Hume poiché passa continuamente dal descrittivo (e.g. una normale distribuzione) al normativo (e.g. definire cosa è: normale; ed anormale). La “malattia mentale” spesso è nulla di più dal deviare: dalla maggioranza; dal Pensiero Unico; dalle “norme” arbitrariamente imposte dall’egemonia pro tempore, per garantirsi i propri privilegi e/o interessi. Uno strumento d’omologazione che il Potere a là Foucault ha a disposizione per imporre comandi, camuffandoli in forme grammaticali fuorvianti.

Una violazione non priva di conseguenze operando in un’area di forte impatto ed interesse nel controllo sociale (Foucault 1972, 1976, 1978, 1980, 2001, 2005, 2006; Goffman, 1961; Rosenhan 1973, 1975; Szasz 1960, 1963, 1970, 1971, 1972, 1974, 1990, 1992, 2000, 2003, 2004).

[8] Il concetto di Atman esprime l’essere consapevole di se stesso. L’anima imprigionata nel samsara che come obiettivo, nella ruota delle reincarnazioni, ha quello di raggiungere la liberazione identificandosi col Brahman.

[9] Il concetto di Jiva pone, di contro, l’accento sull’anima individuale prigioniera all’interno del corpus (deha in sanscrito). In altre parole esprime lo stesso concetto presente nella Scuola Pitagorica e negli Orfici, secondo i quali Psyche era prigioniera nel Soma.

[10] Exempli gratia, nel Kalacakra i tre canali principali sono chiamati: lalana (il canale di sinistra); rasana (il canale di destra); avadhuti (il canale centrale). Il numero delle nadi (conformemente allo Yoga classico) è di 72.000.

[11] Conformemente all’uso fatto nell’Induismo, mentre nel Giainismo il termine indica l’intera comunità di Spiriti Liberati.

[12] L’immagine del vivente imprigionato nel corpo descritta supra è presente pure nella cultura Greco-Romana. Essa è espressa in diversi miti, uno di questi è quello di Prometeo ed Epimeteo. Epimeteo rapprenderebbe l’uomo esteriore al quale Prometeo, il suo intelletto, è legato (Zosimo, Memorie Autentiche).

[13] Questo poiché la Scienza per esistere ha bisogno del Determinismo, essendo la caratteristica principale delle Leggi Scientifiche quella di poter fare predizioni. Non a caso, il Positivismo Logico usava come criterium di demarcazione il test di validità. Di contro, il Libero Arbitrio esclude ogni possibilità predittiva delle Leggi Scientifiche e del test di validità.

[14] L’ipotesi d’un linguaggio criptato è ripetutamente suggerita in tutte le tradizioni. Ad esempio la Bibbia, libro dei Proverbi esorta “l’intelligente” ad acquistare “sagacia” per “capire i proverbi e le allegorie, i detti dei savi e i loro enigmi”. Allo stesso modo, nonostante molti prendano i testi alchemici alla lettera, la maggioranza degli autori principali concorda che il linguaggio usato è allegorico (Stefano di Alessandria; Cleopatra; Zosimo; Bacone; Paolo di Taranto; Basilio Valentino; etc…). Non solo, oltre a criptare la comunicazione attraverso molteplici allegorie, lo stesso processo viene allungato, camuffato e  complicato (Maria l’Ebrea; Zosimo; Pietro da Silento; etc…).

[15] Virgilio, Eneide, quarta edizione, Torino: Paravia & C. (1963), pagina 284.

[16] Virgilio, Eneide, quarta edizione, Torino: Paravia & C. (1963), pagina 284.

[17] Come esempio italiano ricordo Zichichi (1999), Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo.

[18] L’organicismo considera tutti i fenomeni dell’Universo parte integrante d’un tutt’uno inseparabile ed armonioso.

[19] Capra riconosce che entrambi usano il metodo empirico.

[20] Un’obbiezioni che fa sorridere in quanto: l’evidenza assoluta è un qualcosa di non esistente. La stessa Fisica procede in assenza di evidenze assolute. Non solo, Spanos stesso non ha mai fornito alcuna evidenza assoluta delle sue affermazioni!

Ogni volta che s’invoca l’evidenza assoluta è barare intellettualmente, essendo questa un’entità impossibile.

Alcune criticità inerenti l’azione di rettifica (D.P.R. n. 131 del 26/4/1986, artt. 51 e 52) ed il “valore venale” del bene.

Con questo scritto sostengo che l’azione di rettifica prevista dal D.P.R. n. 131 del 26/4/1986 (artt. 51 e 52) non si limita ad accertare il valore venale del bene. Di contro, produce almeno altri due effetti. Da una parte, influenza le dinamiche del mercato del bene. Dall’altra parte, finisce col co-determinare il valore stesso del bene (oggetto d’accertamento) con un meccanismo dialogico ricorsivo.

Questi due effetti (sebbene siano sempre presenti) sono meno visibili durante i periodi di crescita economica. Di contro, diventano palesi nei periodi di crisi (stallo; e/o recessione). In questi ultimi, possono determinare situazioni paradossali nelle quali il venditore, non solo perde tutto il percepito con la vendita, ma arriva a rimetterci maggiori cifre. Questo avviene in quanto, una volta rettificato il valore per ricomputare le imposte indirette, lo stesso è in seguito usato per rettificare il reddito personale del venditore. Quest’ultimo accertamento, basandosi su un atto divenuto definitivo, non può più essere impugnato. Il venditore cosi si trova costretto a pagare le maggiori imposte dirette, con tutte le relative sanzioni (il raddoppio dell’imposta), sul un reddito mai percepito.

Nulla rende il concetto più chiaro d’alcuni esempi.

Esempio: la vendita d’Azienda.

Un imprenditore nel 2010 acquistò un Forno in difficoltà.

Il valore d’avviamento del Forno fu di 180.000,00 euro[1]. Un valore ritenuto assai generoso. L’Agenzia delle Entrate inviò nel 2013 un Avviso di rettifica e di liquidazione nel quale contestò tale valorizzazione. Secondo l’Agenzia, il valore d’avviamento del Forno era di 385.000,00 euro. Senza approfondire le questioni inerenti al computo del valore d’avviamento, ciò che rileva è cosa conseguì.

Sebbene il compratore abbia realmente pagato 180.000,00 euro, ed il venditore incassato quella cifra (costituendo quest’ultima l’intera capacità economica di entrambi i soggetti), una volta rettificate le imposte indirette, le imposte dirette sono ricomputate automaticamente sul queste. Questo comporta per il venditore, dopo aver pagato nel 2011 il 45% d’imposta sul percepito, dover pagare nel 2013 un altro 45% d’imposta sul maggior valore stimato (mai percepito) più tutte le relative sanzioni (il raddoppio dell’imposta).

L’effetto pratico di tutto ciò è che il venditore nel 2010 incassa 180.000,00 euro ed alla fine nel 2013 si ritrova costretto a versare allo Stato 173.250,00 euro d’imposte dirette più 92.250,00 euro di sanzioni. In altre parole, il venditore è costretto a dare allo Stato più di quando abbia percepito dalla vendita!!        

Gli effetti sul compratore sono ridotti. Quest’ultimo ha da pagare solo la rideterminazione delle imposte indirette che prevedono aliquote più basse. Inoltre, per lui, la rettifica diventa solo una presunzione semplice per un accertamento sulle imposte dirette verso la quale può dare prova contraria.

Esempio: vendita di due posti auto.

Prendiamo un piccolo costruttore che nel 2007/2008 (… in piena crisi …) decise di realizzare alcuni posti auto all’aperto in una zona periferica di basso pregio. Piuttosto di rimanere inerte, … mandando a casa i tutti i suoi operari…, in modo sprovveduto agì al motto: “meglio poco che niente”. Egli non sapeva che in economia e nel diritto tributario è: “meglio il “niente” che il “poco””. Il niente, infatti, non è tassato, mentre il poco, una volta rettificato, arriva a toglierti anche quello che non hai mai avuto[2].

Ecco cosa accadde.

Durante la costruzione dei parcheggi, il valore reale di quei posti auto all’aperto, s’aggirava tra i 14.000,00 e 18.000,00 euro l’uno. Per coprire i costi di produzione, il costruttore fu costretto a vendere alcuni posti auto nel 2008. Supponiamo che: i posti venduti furono due (uno di 12 mq a 14.000,00 euro; ed uno di 20 mq a 16.000,00, per un toltale di 30.000,00 euro); e che l’acquirente fu uno (Tizio).

L’Agenzia delle Entrate nel 2009 rettificò entrambi i valori portandoli da 30.000,00 euro a 81.440,00 euro! L’acquirente, a causa della rettifica sulle imposte indirette, si ritrovò un “debito improvviso” di 10.545,50 euro. Una cifra notevole che comportò una maggiorazione dei costi preventivati per l’acquisto più d’un terzo.

Per il venditore, di contro, comportò la rettifica dell’IRPEF del 2007, con le relative sanzioni, per non aver dichiarato un maggior guadagno di 51.440,00 euro!

Anche in questo caso, le tasse reclamarono più di quanto guadagnato dal contribuente. Ecco alcuni esempi di come in Economia, Scienze delle Finanze e Diritto Tributario, il Niente sia meglio del Poco.

Un Sistema Fiscale che nemmeno lo Sceriffo di Nottingham riuscì ad architettare (!).

Torniamo agli effetti citati supra.

Da questi esempi risulta chiaro il primo effetto. L’azione di rettifica influenza in modo innegabile il mercato oggetto del suo controllo. In alcuni casi può paralizzarlo; in altri può determinare la sopravvivenza d’alcune imprese piuttosto che d’altre. Non solo, le stesse contrattazioni non avvengono più come risultanza d’un libero mercato (ovvero dell’incontro tra lettera e denaro). Esse sono influenzate dalle aspettative che le parti (il venditore e l’acquirente) hanno sull’agire d’un terzo soggetto (l’Agenzia delle Entrate). Nessuna persona razionale, a meno che non sia completamente sprovveduta e/o autolesionista, venderebbe un bene per un prezzo minore rispetto, non quello determinato dal mercato ma, quello utilizzato dall’Agenzia per la rettifica. Farlo, condurrebbe agli effetti visti supra.

Il secondo effetto concerne il valore di rettifica applicato e come questo, non sia la mera costatazione di cosa avviene nel mercato ma, sia influenzato dalla stessa azione d’accertamento.

Essendo economicamente dannoso vendere per cifre minori rispetto quelle applicate dall’Agenzia delle Entrate nelle sue rettifiche, il mercato tenderà ad omologarsi a quest’ultime. Ciò comporta che l’azione di rettifica dell’Agenzia co-partecipa alla creazione dei valori venali applicati. Non solo, una volta rettificati alcuni beni (divenuti definitivi gli accertamenti) quest’ultimi sono usati come giustificazione e motivazione per fondare altre rettifiche su beni simili. In questo modo, è persa ogni connessione colla realtà controfattuale del mercato. Le rettifiche finiscono per fondarsi su un’iperrealtà virtuale originata dagli stessi accertamenti. Poco importa che questi diventano definitivi, non poiché accertino alcun valore reale ma, poiché almeno una parte (di solito il compratore) ha trovato “più economico” pagare la maggiore imposta indiretta piuttosto che sostenere un contenzioso legale. Una scelta che preclude al venditore ogni possibile azione d’impugnazione autonoma dell’atto, sebbene ne abbia di motivi.

Mentre lo Sceriffo di Nottingham di tanto in tanto perdeva con Robin Hood, oggi vince sempre.

Che cosa intendo dicendo ciò?

Qualcuno di Voi, letti gli esempi supra, potrebbe aver pensando che, ricorrendo alla Giustizia Tributaria, ogni possibile danno sarebbe stato nullificato.

Tralasciando che ogni procedimento legale ha in se una fortissima alea, nel sostenere ciò non mi riferisco all’esito del Ricorso ma a qualcosa d’altro.

Essendo “prassi” compensare le spese di giudizio, l’annullamento dell’atto impositivo non nullifica i danno causati da esso. Al contribuente restano da pagare: le parcelle dell’avvocato; l’IVA; i contributi unificati; … dei diversi gradi di giudizio.

E’ inutile ricordare come una buona percentuale di questi costi, finiscono nelle “tasche” del Fisco. Paradossalmente allo Stato conviene produrre accertamenti infondati. Nella peggiore ipotesi ci guadagna tutti quei tributi che sono generati come conseguenza del contenzioso legale.

Non a caso, la stragrande maggioranza degli accertamenti è di modico valore (al di sotto dei 20.000,00 euro). Infatti, sono questi i casi dove il Fisco vince sempre. Da una parte, molti contribuenti preferiscono pagare quanto “accertato, non per aver evaso ma, perché questo gli costa meno del sostenere un contenzioso legale! Dall’altra parte, qualora gli atti siano impugnati, il Fisco comunque ci guadagna i tributi derivanti da ciò! In questo modo (soprattutto nel caso in cui sia decisa la compensazione delle spese), il Fisco ci guadagna in ogni caso.

[1] Era un piccolo Forno in difficoltà con un reddito annuo decrescente sui 35.000,00 euro. Un reddito esistente grazie al lavoro non retribuito: dell’imprenditore e di sua moglie.

[2] Infatti, un basso profitto fa scattare: il redditometro; gli studi di settore; il valore venale del bene; una serie di presunzioni e di meccanismi legali; … . Questi alla fine tolgono al cittadino non solo quel poco che ha guadagnato (… sul quale ha pagato regolarmente le imposte…) ma anche quello che non ha mai avuto. In questi casi, exempli gratia, i soli costi per potersi difendere (attraverso un contenzioso legale nei suoi diversi gradi di giudizio) supera la sua capacità economica.

Un caso d’I.V.A. non dovuta

L’articolo 91 del Codice di Procedura Civile stabilisce che la parte soccombente sia condannata dal giudice al pagamento delle spese processuali a favore di controparte. Nel liquidarle in sentenza, il giudice utilizza una formula generale nella quale include sempre l’I.V.A. ed ogni onere accessorio. Questo, però, non significa che l’I.V.A. sia sempre dovuta nella concretezza d’ogni caso. L’I.V.A. è dovuta solo quando non è (… per la parte a favore della quale è stata liquidata…) un costo deducibile. Negli altri casi non è dovuta, costituendo un indebito arricchimento. Infatti, qualora richiesta dalla controparte, questa la incasserebbe due volte (una volta dallo Stato; una volta dalla parte soccombente). Ricordo come il quantum non sia “roba da poco”. Sebbene vari in base all’effettivo ammontare della parcella liquidata, spesso e volentieri supera i 1.000,00 euro.

Contrariamente da quanto sostenuto da molti avvocati (!), il fatto che l’I.V.A. sia liquidata in sentenza non significa che il giudice abbia riconosciuto la sua doverosità nello specifico caso. La Cassazione ha affermato che tale liquidazione include sempre la condizione: solo “se dovuta”.

In questo modo, per economia processuale, la sentenza (nella parte in cui liquida l’I.V.A.) non diventa: né oggetto di giudicato; né autonomo vizio d’impugnazione. Semplicemente, qualora il pagamento dell’I.V.A. sia richiesto, la parte soccombente ha il diritto d’eccepirlo in fase esecutiva, contestando il titolo esecutivo attraverso un’opposizione al precetto e/o all’esecuzione.

Questa interpretazione è, inoltre, l’unica conforme allo Spirito della Legge. La condanna alle spese legali, infatti, è una forma di risarcimento extra-contrattuale che consegue al principio generale del neminem laedere (Corpus Juris Civilis). Ha lo scopo di “risarcire” un soggetto, chiamato “ingiustamente” in giudizio, dei costi effettivamente sostenuti per potersi difendere. Ciò ribadisce a fortiori come l’I.V.A. sia dovuta solo, e solo se, è stata un costo per quel soggetto. Non ha rilevanza, di contro, la questione se il giudice abbia liquidato come spese legali un quantum minore rispetto alla parcella effettivamente pagata da controparte. Questo poichè il giudice, nel liquidare le spese, decide un quantum “equo” rispetto alle tabelle di riferimento ed all’attività svolta. Gli onorari dei vari professionisti, infatti, sono fortemente eterogenei. Sarebbe ingiusto condannare una parte, a risarcire una controparte che, per sua scelta, abbia optato per un professionista particolarmente costoso.

Con questo post si è tentato d’informare chiunque sul thema in modo che, nell’eventualità, sappia: cosa fare; e come valutare i pareri degli avvocati. Un post scritto dopo aver verificato per anni che nella pratica l’I.V.A. era solitamente fatta pagare quando non dovuta.

De Nova Superstitione – Alcune Questioni sullo Status Epistemologico della Psicologia

You have only to search an emancipate man’s mind long enough to come upon an abyss of superstition somewhere, nowadays generally scientific.”

Bernard Shaw, Letter.

Blind commitment to a theory is not an intellectual virtue: it is an intellectual crime

Irme Lakatos

Siamo noi che produciamo le teorie scientifiche, siamo noi che critichiamo le teorie scientifiche. In ciò sta’ tutta la teoria della scienza: noi inventiamo le teorie e noi uccidiamo le nostre teorie

Karl Popper

Rationale

Introduzione

Etimologicamente metodo deriva dal latino methodus, il quale a sua volta riprende due termini del greco antico: meta e hodos. Il significato è: dirigersi verso una meta; e/o il modo di procedere verso una destinazione. La metodologia, quindi, concerne il modus operandi inerente, la raccolta e l’elaborazione dei data che riguardano la natura dell’oggetto studiato (Hagan, 2006). Un’attività necessaria per raggiungere l’obiettivo della Scientia: descrivere e scoprire regolarità fra gli eventi della Natura; formulare leggi (McBurney, 2001; Pedon & Gnisci, 2004; Zappalà, 2007; Chiorri, 2009).

Molto spesso quando si parla di metodo, però, non s’intende il Metodo Scientifico così come elaborato all’interno della Riflessione della Teoria della Scienza. Di contro, s’intende una rielaborazione di quest’ultimo fatta dalle diverse Comunità di Discorso  a là Lyotard.  Ognuna di queste, in base alle proprie esigenze, lo riadatta in funzione alla capacità della propria disciplina a soddisfarlo. Questo comporta, di fatto, una certa ambiguità che tende a minimizzare il valore eterogeneo di conoscenza prodotto dalle diverse Comunità. Paradigmatica è la differenza fra le Scienze Naturali e le Scienze Sociali.

Rispettare un metodo, quindi, non garantisce l’arrivare ad alcunché di vero. Semplicemente, permette di produrre un artefatto[1] riconosciuto come proprio da un dato Paradigma e/o una data Scuola.

In quest’articolo esamineremo themae inerenti: lo status epistemologico della Psicologia; come questo sia eterogeneo nelle discipline che la compongono. Una riflessione importante che ci permette di comprendere le ragioni che hanno portato spesso la psicologia a: fallire d’essere una scienza coerente (Koch, 1969); produrre molta pseudo-conoscenza ed oscillare nell’essere “common sence” – “nonsence” (Evans, 1958; Wright, 1985; Brown & Curtis, 1987; Pepinsky & Jesilow, 1992; Kappeler, Blumberg, and Potter, 2000; Walker, 2005); prestarsi a varie forme d’abuso (Foucault, 1972, 1976, 1978, 1980, 2001, 2005, 2006; Masson J., 1984; Szasz 1960; 1963; 1970; 1971a; 1972; 1974; 1990; 1992; 2003; 2004).

Un insieme di critiche fondato su molti controfattuali. Alcuni sono presi dalla psicologia forense. Una disciplina psicologica, che al contrario di molte altre, si presta ad un esame controfattuale fatto in contradittorio. Cosa che raramente (se non mai) avviene in molte branche della psicologia. Da questo esame, risulta come molti professionisti tendano a ripetere gli stessi errori basandosi: sul senso comune (Wright, 1985; Brown & Curtis, 1987; Pepinsky & Jesilow, 1992; Kappeler, Blumberg, and Potter, 2000; Walker, 2005); e/o common sensenonsence (Evans, 1958).

Questo accade poiché spesso i costrutti sono: formulati in modo non falsificabile; incapaci di passare il test di Validità; enunciati in forma incoerente; sviluppati con ragionamenti dominati dalla fissità funzionale; ed assenti ad un esame e ad una riflessione logico-epistemologica.

Quest’ultima è importante per valutare: da una parte, la qualità del contributo che i costrutti apportano alla Conoscenza, da intendersi come l’insieme delle asserzioni vere (Ferrari, 1996). Dall’altra parte, ridurre l’abuso e/o mis-uso che dei costrutti può essere fatto nella pratica, permettendo una più facile rilevazione quando accade.

Perché in Psicologia c’è una bassa interrogazione logico-epistemologica?

Alcuni potrebbero sorprendersi nel sentire che in Psicologia esiste una bassa interrogazione logico-epistemologica.  In realtà, esaminando la Storia della Scienza, essa è una delle discipline in cui è avvenuto maggiormente.

Da una parte, gli psicologi (eccetto chi si dedica alle neuro-scienze o scienze cognitive) hanno poca familiarità colla Teoria della Scienza e la Logica. Dall’altra parte, questo tipo di riflessione è sempre stata “punita” all’interno d’alcune discipline, che di contro, hanno promosso difese ad oltranza verso Paradigmi ricchi di contraddizioni ed incongruenze.

Un esempio è fornito dalla psicoanalisi. Da Freud in poi, gli psicanalisti hanno sempre rifiutato d’affrontare le debolezze dei loro costrutti e/o ragionamenti, usando la, ed abusando della, “psichiatrizzazione” contro chi osava sostenere idee critiche e/o contrarie alle loro (Jacques Van Rillaer, 1980, 2005d).

Evidenza è data da come gli psicoanalisti risposero ai filosofi della scienza durante il Simposio di New York (1958). Questi ultimi, colpevoli di “lesa maestà”, asserendo la psicoanalisi incapace di rispettare i criteria del Positivismo Logico, ricevettero in risposta una “psichiatrizzazione” della filosofia, ritenuta essere un sintomo di nevrosi ossessiva (Roger Mopney-Kyrle, 1956). Un modus operandi mantenuto nel tempo, più volte denunciato da diversi autori (Jacques Van Rillaer 1980, 2005d; Don Innocenti, 1991; Meyer, 2005).

Ricorrente all’uso dell’agumentum ad personam contro chi osa propone riflessioni critiche verso il paradigma è un modo per estinguere ogni possibile dialogo scientifico e creare modelli di conoscenza basati sulla tirannia dell’ipse dixit. Inoltre, crea climi di “paura” e di ostilità.

L’argumentum ad personam è, infatti, ben diverso dall’argumento ad hominem. Esso è una strategia usata da chi sa: d’avere torto; non poter controbattere l’avversario (Shopenhauer, 1998). Al posto d’usare argumenta ad rem e/o ad hominem e/o ex concessis, … come ultimo escamotage si ricorre ad una campagna diffamatoria contro l’oppositore. Calunniando quest’ultimo, non solo si distrugge l’antagonista ma al contempo si scredita la tesi avversa.

Ora non occorre essere un Comportamentista per comprendere che facendo seguire ad ogni osservazione critica una punizione, si cerca d’estinguere tale attitudine e/o capacità, e/o almeno la manifestazione.

Un silenzio che agevola pratiche disoneste come la fabbricazione dei data al fine di “corroborare” costrutti spesso infondati[2]. Un’attività di falsificazione che, non potendo difendere il proprio operato diversamente da chi la denuncia, ricorre sempre più spesso all’argumentum ad personam. Pratiche che, seppur con intensità minore, sono state dimostrate pure all’interno della Soft Psychology.

Effetti d’una bassa interrogazione logico-epistemologica

Una bassa interrogazione logico-epistemologica conduce allo sviluppo di pseudo-scienza facilmente strumentabile. Non solo, permette di creare costrutti fondati sull’ideologia piuttosto che sul controfattuale. Ciò porta a sviluppare insiemi di teorie incoerenti atte, di volta in volta, a consentire ogni tipo d’inferenza. Le conclusioni assunte da essi sono sempre frutto di scelte di mera opportunità politica e non neutre deduzioni conseguenti la realtà dei fatti!

Un fenomeno che, quando avviene colla psicologia, non è privo di conseguenze. Questo poiché può declinarsi in subdoli strumenti di controllo sociale, attraverso i quali raggirare lo Stato di Diritto e la formalità della Legge. Uno di questi possibili abusi è stato evidenziato in aree quali la psicopatologia e psichiatria (Foucault, 1972, 1976, 1978, 1980, 2001, 2005, 2006; Masson J., 1984; Szasz 1960; 1963; 1970; 1971a; 1972; 1974; 1990; 1992; 2003; 2004).

Abusare di tali costrutti è cosa facile. Questo può avvenire: sia in buona fede; sia in mala fede. Nel primo caso c’è l’azione dell’effetto distorsivo delle lenti interpretative sui, ed usate dai, professionisti (Rosenhan, 1973, 1975)[3]. Nel secondo caso, l’incoerenza, la vaghezza, l’assenza d’una verifica controfattuale e di contradittorio, la mancanza d’una coscienza critico-epistemologica, … rende assai facile poter abusare di questi costrutti.

Esempio pratico di come le diagnosi, seppur fatte in buona fede, seguano non a fatti oggettivi ma all’interesse politico, è fornito dal Tribunale di Salute Mentale Inglese. Questo Tribunale[4] “di prassi” non ha mai dimesso alcuno senza il parere favorevole del Ministero degli Interni (Home Office). In altre parole, era solito decidere conformemente a quanto chiesto dal Ministero e non in quanto emergente dalle evidenze “cliniche”. Guardando alle pubblicazioni, Wilde (1968) evidenziò come le diagnosi cliniche non corrispondevano alle obiettive condizioni dei soggetti ma alle caratteristiche sociali di questi (ricchezza; gruppo etnico; potere sociale; etc…).

Esempi d’usi fatti in mala fede è dato da ciò che accadde in URSS agli oppositori politici. Recentemente è stato anche dimostrato come alcuni Paesi (e.g.: USA; UK) usassero la psicopatologia per “colpire” chi indagava fenomeni ufologici. Ciò è emerso da molte testimonianze e da molti documenti ufficiali[5] . Altri casi sono emersi all’interno di grandi aziende durante gli anni di crisi finanziaria. Alcuni ragionieri / revisori che scoprirono falsificazioni nei bilanci, dopo aver mostrato d’essere restii ad avvallarle, furono allontanati e discreditati usando proprio la psicopatologia come forma di violenza sociale. Nulla di più utile, non solo grazie ad essa è possibile allontanare la persona raggirando ogni limite e le garanzia di legge, ma si rende pure questa non credibile.

Questo è possibile poiché ricade in uno strumento malleabile, non basato su fatti oggettivi, controfattuali, ma, di contro, su mere interpretazioni retrospettive attraverso le quali tutto viene: selezionato; modificato; riletto; interpretato; … al fine di poter sostenere, e/o farlo combaciare, ad un costrutto. Un’attività fatta per sostenere ed asservire particolari interessi pro tempore, creando storie verosimili colle quali si controlla l’ambiente sociale.

Non solo, molte reazioni usate ex post per giustificare le stesse diagnosi cliniche, conseguono solo alle diagnosi fatte come naturale risposta alla violenza sociale e fisica ricevuta.

Chi diventa oggetto di diagnosi (anche se infondata) cade in una spirale viziosa, come quella descritta dalla labeling theory, che presto o tardi, conduce il soggetto ad accettare il ruolo che gli è imposto.

La credenza creata, infatti, crea uno stato di disinformazione che guida ogni successiva interpretazione, fatta da un qualsiasi altro soggetto (anche se professionista), tendente a corroborare l’informazione assunta. Questo è un fatto ampiamente provato. Per istanza, riporto un esperimento avvenuto al Mental Research Institute di Palo Alto dove due eminenti clinici (di cui uno fu Jackson, fondatore e primo direttore dell’Istituto) divennero oggetto d’osservazione sugli effetti creati proprio da uno stato di informazione come quello detto supra. Ad ogni clinico fu detto d’incontrare un paziente paranoide che si credeva psicologo clinico. Durante la seduta, il comportamento perfettamente adeguato e normale di entrambi, fu continuamente letto ed interpretato come prova dello stato psicotico della persona che avevano dinanzi.

Famosi, poi, sono i due esperimenti fatti da Rosenhan (1973;1975) che dimostrano, in particolare il primo, come soggetti perfettamente normali una volta definiti “malati di mente”, siano ritenuti da tutti i professionisti del settore come tali. Tutti i professionisti iniziano a leggere ed interpretare i comportamenti perfettamente normali dei soggetti come confermanti dello stato patologico attribuitogli. Gli unici che si accorgevano della loro sanità furono i “malati”.

Questo accade facilmente, quando non fatto in malafede, per due fattori: la fissità funzionale dei soggetti volta a convalidare i costrutti, le ipotesi, le informazioni di partenza; una bassa consapevolezza ed interrogazione critico-epistemologica verso i costrutti impiegati (spesso assunti ad ideologia).

Un esempio di fissità funzionale ed assente coscienza critico-epistemologica nel ragionamento psicologico

Un esempio pratico di come questo mix di fissità funzionale e bassa riflessione epistemologica opera, può essere fornito dall’analisi del costrutto della personalità antisociale e psicopatia.

Questo costrutto nacque con Pinel agli inizi del 1800. Fu chiamato manie sans delire. Suo obiettivo era spiegare il comportamento d’alcuni soggetti: violenti e pericolosi; dediti all’attività criminosa; privi di scrupoli e di freni morali; propensi ad uccidere il prossimo. Ben presto questo costrutto s’allontano dall’oggettività dei fatti (l’attività criminosa; la pericolosità sociale; l’indole violenta). Esso fu ribattezzato: moral derangement (Rush, 1812); moral insany (Pritchard, 1835); … e finì coll’inglobare chiunque, semplicemente, agisse differentemente dagli altri. Un costrutto vago che si declinò subito ad ampi abusi. Una prima critica fu fatta da Ordronaux (1873). Egli rilevò come questo costrutto fosse un tentativo di far passare per scienza, antiche idee superstiziose.

Sebbene Millon (1981) affermi che l’antica nozione di moral insanity, oggigiorno, ha poco a che fare coll’attuale costrutto di psicopatia e di personalità antisociale, egli ha ragione solo in parte. Infatti, ciò potrebbe essere vero se e solo se si confronta: col DSM-IV-R; ed alcune Leggi Nazionali quali English Mental Health Acts 1983. Questi richiedono prova d’un’oggettiva attività criminale per la diagnosi. Milton, di contro, ha torto se lo si confronta coll’attuale costrutto come usato e sviluppato dai clinici nella pratica e nella letteratura. Esso è staccato dall’oggettività: dei fatti; e del comportamento criminale. Ricade ad un insieme di meri tratti di personalità, tornando ad essere un costrutto: incongruente; contradittorio; infalsificabile; prestabile a qualsiasi mis-uso ed abuso. Non a caso esso originò due figure antitetiche: lo psicopatico criminale; e lo psicopatico non criminale.

Mentre i primi sono soggetti dediti ad attività violente e criminose; i secondi sono soggetti normali, pro-sociali, ben integrati.  Questo mostra l’impossibilità del costrutto a prestarsi a falsificazione e controllo attraverso l’analisi dei controfattuali. Una volta fatta la diagnosi, qualunque sia il comportamento agito dal soggetto, questo è interpretato come manifestazione dello stato psicopatologico attribuito. Per tali motivi, alcuni ricercatori assunsero posizioni critiche, attualizzando ciò che disse Ordronaux. Essi definirono questo costrutto: teoricamente insoddisfacente, praticamente sviante, dannoso al pensiero scientifico (Kinberg, 1946); un mito, una entità inesistete (Karpman, 1948); un intrigante racconto confuso ed inconsistente (Hill, Murray and Thorley, 1986); privo di prove scientifiche e d’utilità clinica, una entità mitica, un giudizio morale mascherato da diagnosi clinica (Blackburn, 1988); un moralismo camuffato da scienza medica (Calvaldino, 1998).

Così alla fine Kanner ebbe ragione nel dire: uno psicopatico è qualcuno che non ti piace.

Notate bene: non nego che nel Mondo esistano crimini e criminali. Ritengo che questi debbano essere puniti. Ciò che critico, di contro, è come alcuni costrutti sono usati per dar luogo a nuove “caccie alle streghe” a là Maleus Maleficarum[6].

Prova è data dalla necessità di intervenire legislativamente[7] per limitare il loro uso.

Nonostante ciò, i clinici incuranti della legge, continuarono ad estendere l’applicabilità del costrutto facendovi ricadere sempre più soggetti dediti ad attività pro sociali[8].

Ciò portò alla creazione d’un costrutto molto contradittorio e non omogeneo. Alcuni, scissero il paradigma in due: quello della personalità antisociale (legato a fatti oggettivi); quello della psicopatia (legato a meri tratti di personalità). Altri, lo ritennero un costrutto unico, all’interno del quale, le due figure dette rappresentano due diversi gradi patologici.

Coll’aumento delle scale diagnostiche, aumentarono anche le contradizioni fra le diagnosi. Spesso quest’ultime, nella pratica professionale, sono prese su mere “sensazioni” che il professionista ha al momento, senza usare alcuna Scala.  Un fenomeno dimostrato durante le udienze (hearings) avvenute presso il Tribunale di Salute Mentale Inglese. Nel controesame emergeva chiaramente che le diagnosi non seguirono alcun criterium diagnostico (DSM; e/o altre Scale) ma furono prese … su quella che elegantemente fu definita … mera “esperienza clinica”.

Non di rado accade che, solo ex post attraverso l’interpretazione è sussunta una certa corrispondenza tra la fattispecie fattuale e la fattispecie teorica del costrutto di riferimento, forzando queste ad un riscontro.

Chi scrive, ritiene questo costrutto essere un esempio utile per comprendere come opera: la fissità funzionale; l’assenza d’una consapevolezza critico-epistemologica; l’azione autoconvalidante prodotta dagli stessi costrutti psicologici attraverso un’interpretazione deformante della Realtà.

Un interessante esempio è dato da Lilienfeld (1994) che arrivò a sostenere una struttura logica incoerente: P E NON P.

L’autore trovò una correlazione positiva tra soggetti diagnosticati psicopatici / antisociali (colle attuali scale di riferimento) e la frequenza di atti altruistici (comportamento pro-sociale). Al posto d’inferire un’incoerenza interna al costrutto, egli concluse che bisognava incorporare come item diagnostica per il comportamento antisociale, il comportamento altruistico ed eroico. In assenza di questa item, un sostanziale sottogruppo di psicopatici sarebbe risultato un falso-negativo (!). In altre parole, l’autore suggerì come criterium diagnostico per il comportamento antisociale, il comportamento pro-sociale (!) esplicitando un ragionamento incoerente ed illogico riassumibile colla formula: P E NON P.

Questo è un caso paradigmatico, ma non raro, dell’effetto d’un’assente interrogazione logico-epistemologica e d’un ragionamento dominato da fissità funzionale.

Critiche epistemologiche e tendenza auto conservante del Paradigma

Tra coloro c’ebbero il coraggio di criticare lo status epistemologico delle Scienze Psicologiche c’è stato Meehl (1973a; 1973b; 1978; 1990a; 1990b; 1991; 1997a; 1997b). Altri, focalizzarono, di contro, la loro attenzione su particolari questioni inerenti: la psichiatria; la psicopatologia; e la psicanalisi. Quest’ultime riflessioni, però, andarono oltre gli aspetti epistemologici, finendo negli abusi attuati attraverso queste discipline.

La tendenza a conservare il Paradigma difronte all’incoerenza è sempre stata presente in Psicologia. Benso (2013) lo dimostrò parlando della modularità di Fodor. L’autore mostrò come dagli anni ’80 fosse rimasta la tendenza a trattare la modularità, anche complessa, con un taglio fodoriano, sebbene l’ipotesi che considerava incapsulati i moduli complessi fu ampiamente confutata.

Kuhn (1962; 1970) osservò che dinanzi alle contradizioni, l’establishment tende: ad arroccarsi in un blind commitment; a salvare i costrutti formulando d’una molteplicità d’auxiliary assumptions. Una pratica che, paradossalmente, alla fine incrementa le incongruenze. Pochi sono i rebels che tentano d’avanzare nuove ipotesi coraggiose, … cercando di dar vita ad una scientific revolution… . Questo accade per due motivi: i problemi sociali che comporta il mostrare[9] genialità; la fissità funzionale creata dall’habitus.

Problemi sociali legati alla genialità

 L’establishment a capo d’una Comunità di Discorso è poco propensa ad accettare i mutamenti. Questo poiché, ogni nuova distribuzione di potere si ripercuote sulla definizione di verità (Lyotard, 1983) ed, allo stesso modo, ogni nuova definizione di verità si ripercuote sulla distribuzione di potere nella Comunità.

Ciò ha portato nella Storia all’uso di varie forme di violenza contro chi manifestasse genialità (Eysenck, 1995). L’autore riportò come molto spesso chi sostiene idee nuove rispetto l’esistente Paradigma, indipendentemente se ciò avviene in un contesto scientifico o politico, diventa oggetto di persecuzione da parte dell’Autorità esistente[10].

Questo, come gli argumenta ad personam visti supra, conduce all’estinzione di ogni partecipazione critica utile all’evoluzione ed al miglioramento del paradigma, spingendo validi soggetti ad optare per un più tranquillo “menefreghismo”[11].

Tali attacchi verso chi ha proposto idee nuove sono stati sempre una costante nella Storia dell’Umanità. Onnipresente fu la tendenza sociale ad imprigionare e maltrattare i “grandi uomini” ad ogni opportunità (Ellis, 1927; Rhodes 1932; Eysenck, 1995; Oleson, 1998). La brillantezza e curiosità mentale, porta a produrre mutamenti nel paradigma e nei rapporti di forza all’interno della società. Questo è sufficiente per “punire” il genio mentre vive anche qualora la legge non lo permetta (Rhodes, 1932). Il classico esempio è Socrate. Mostrando pensiero “originale”, fu definito l’uomo più pericolo d’Atene (Lindsay, 1918) e per ciò fu: accusato di corrompere i giovani e di introdurre nuovi dei; condannato e giustiziato su irrilevanti ed infondati rumori.

Questo poiché alla fine: il Potere è la capacità ed il diritto di far prevalere la propria definizione di Realtà sopra le altre (Dorothy Rowe; Masson, 1990).

Problemi cognitivi legati alla fissità funzionale

Se alcuni tacciono non trovando allettante finire vittima di violenza sociale; altri lo fanno poiché non riescono ad uscire dall’Habitus fornitogli da una data Scuola.

Questi ultimi sono prigionieri d’un fenomeno cognitivo chiamato fissità funzionale.

Secondo Kuhn (1962), infatti, vi sono due tipi di scoperte: una fattibile da ogni individuo, acquisita la forma mentis d’una scuola; ed un’altra possibile solo ad alcuni Spiriti Liberi, capaci di strapparsi l’habitus impostogli e diventare (usando un termine giapponese) muje[12].

Rimanendo prigionieri all’interno della forma mentis d’una data scuola si possono solo incrementare le conoscenze dell’esistente Paradigma. Diventando rebels si possono creare teorie alternative all’esistente Paradigma, ed affrontare: il nuovo; l’inconsueto; l’inesplorato.

Questo ha a che fare colle due modalità di problem solving descritte dalla Gelstalt. La prima è quella usata da chi procede logaritmicamente (ovvero “passo dopo passo”), applicando schema appresi e risolvendo problemi noti. La seconda è quella usata da chi giunge alla soluzione attraverso un’intuizione. Una capacità innata che permette ad un soggetto di trascendere i limiti del paradigma appreso e, ponendosi al di fuori d’esso,  risolvere il problema in modo nuovo.

Chi eccelle nel primo tipo di problem solving è chi più sé omologato al paradigma esistente. Costui, però, col tempo sviluppa una forma mentis dominata dalla fissità funzionale: la tendenza ad usare oggetti e concetti sempre nello stesso modo (Purves et al. 2010). L’esempio riportato supra di Lilienfeld (1994) può essere visto come effetto di questa fissità funzionale.

Il rebels, di contro, non sono prigionieri della fissità funzionale. Uscendo dal Paradigma possono: vedere quest’ultimo nella sua oggettività; criticarlo; rivoluzionarlo; e trovare soluzioni al Nuovo ed Inconsueto.

Purtroppo questo tipo di pensiero libero è ostacolato.  Alcuni hanno parlato di pratiche menticide (mentis + caedere). Altri hanno criticato il sistema educato: Bourdieu; e Illinch.

Bourdieu rilevò come il sistema scolastico, col mis-conoscimento e la violenza simbolica, svolge appunto una funzione riproduttiva delle forme simboliche del potere per legittimare i rapporti di forza e di sfruttamento esistenti nell’ordine sociale a quo.

Illich accusa, invece, il sistema scolastico d’inculcare nell’habitus delle persone il consumo passivo: la tendenza ad accettazione acriticamente l’ordine sociale esistente coi suoi rapporti di forza. Un’azione attuata attraverso un programma occulto, costituito dall’insieme: delle procedure scolastiche; dell’organizzazione; dei meccanismi di valutazione; etc… . Attraverso questo: si premia e rinforza chi si omologa all’ordine esistente; si sanziona chi mostra pensiero divergente ad esso.

In altre parole, l’attuale sistema educativo fa di tutto per creare fissità funzionale, un fenomeno che però è pericolo e disadattivo. Non a caso, Alexandre Dumas affermò: “How is it that little children are so intelligent and men so stupid? It must be education that does it.”

Educare le persone ad avere pensiero divergente, non sanzionando chi lo mostra, è socialmente necessario. Questo poiché la creazione di nuove ipotesi presenta sempre probabilità zero rispetto all’esistente Paradigma, non potendo essere formulate per induzione (Popper, 1996). Il nuovo è sempre improbabile, non trovandosi nelle “tasche” dell’habitus indossato.

La riflessione epistemologica è l’unico strumento esistente per: sviluppare e mantenere buone capacità critiche; evitare di cadere nella fissità funzionale.

“Saprai se dico il vero. Io non uso

Parlare a vuoto, per fare piacere”

Oceano in Eschilo, Prometeo Incatenato

De Scientia et Methodo Psicologiae

Un insieme di discipline eterogene per Status epistemologico

La prima osservazione da fare è che la Psicologia è composta da un insieme di discipline eterogenee per status epistemologico.

Psicologia Fisiologica, Cognitiva e Sperimentale

La Psicologia Fisiologica, Cognitiva e Sperimentale hanno piena “cittadinanza” nel Paradigma Scientifico. Questo poiché riescono ad applicare il metodo delle scienze naturali.

Soft Psychology

La Soft Psychology[13], di contro, ricade spesso nell’essere un “limbo”: d’ambiguità; di confusione; d’indeterminatezza .

Essa comprende un’eterogeneità di discipline per: oggetto di studio; valore epistemologico. Ciò che hanno in comune è: l’incapacità a sodisfare i criteria delle scienze naturali e del positivismo logico; il tentativo di rispettare il principio di falsificazione (sebbene spesso, come visto supra, ciò non avviene). Lo status epistemologico individuale di queste discipline varia in conformità a come riescono a soddisfare tali criteria. La psicologia sociale, di comunità e dell’educazione, presentano la tendenza a status epistemologici maggiori rispetto la clinica, psicopatologia e counselling.

La debolezza dei costrutti della soft psychology, rende questi ultimi declinabili verso gli abusi indicati supra. Questi ultimi, conformemente a Foucault, possono: condizionare, distorcere, la percezione della realtà; definire cosa sia normale/anormale, sano/patologico, conforme/ deviante; introdurre scelte normative-politiche sotto la maschera di neutra scienza; sorvegliare e controllare; impedire il libero proliferare dei discorsi; naturalizzare e legittimare l’uso della coercizione contro chi non si omologa; esercitare parte del potere disciplinare.

Come è possibile ciò?

Innanzi tutto è da precisare che in psicologia le relazioni fra variabili possono essere osservate in due modi: in termini di causazione (esperimento); in termini di correlazione e/o co-variazione. Mentre la causazione può essere studiata solo in Psicologia Fisiologica e Sperimentale, raramente trova spazio nella Soft Psychology. La maggior parte dei costrutti di questa si basa su correlazioni.

Quest’ultima si presta a facili manipolazioni, non potendo prescindere da scelte politiche (usando quest’accezione nel senso più ampio possibile).

Conformemente a Meehl (1990a) il test d’Ipotesi Nulla è soggetto all’influenza di dieci fattori di bias i cui effetti sono solitamente: sizeable; opposed; variable; unknown[14].

Mentre è possibile ridurre il problema dell’inadeguato potere statistico applicando al campione un potere di 0.9 o superiore[15], di contro, non è possibile agire sul crud factor. Questo poiché nelle scienze sociali tutto, in qualche modo, correla col tutto (Meehl, 1990a, 1990b). Il crud factor è appunto questo.

Quindi: da una parte, l’accettazione o il rifiuto dell’Ipotesi Nulla dipende esclusivamente dal potere statistico usato (Meehl P. 1990b); dall’altra parte, i “confini” e “l’estensione” dei costrutti ricade sempre in una scelta politica. E’ quest’ultima a determinare il tipo di correlazioni da associare e ricercare per definire il costrutto all’interno d’uno scenario nel quale tutto correla col tutto.

Il problema del crud factor non è risolvibile colla statistica ma solo: colla riflessione epistemologica; e secondo Meehl (1997a) coll’uso d’un indice di corroborazione C*.

Una bassa coscienza critico-epistemologica spingere gli psicologi in balia: della fissità funzionale; e d’un insieme di interpretazioni deformanti la Realtà per effetto delle lenti indossate come descritto, e.g., dalla teoria della riflessività  (Clifford e George, 1986).

Calati all’interno d’una prospettiva situata, costituita dai costrutti e dal Paradigma d’una propria Comunità di Discorso, la Realtà non è più vista per quello che è ma per quello che dovrebbe essere conformemente alla visione assunta in partenza.

La scelta delle variabili da correlare; il come interpretarle … consegue a questo.

Psicopatologia e Violazione della Legge di Hume

Altro problema rispetto il crud factor è costituito dalla violazione della legge di Hume[16] fatta dalla Psicopatologia.

La legge di Hume è un importante criterium di demarcazione tra ciò che è empirico e ciò che non lo è. Violarla significa attraversare un confine “dimensionale” tra il “regno” della Logica Formale e quello della Logica dei Valori. Mentre nel “primo regno” le asserzioni possono essere valutate in termini di vero o falso ed il ragionamento in termini di valido o invalido, nel “secondo regno” non è possibile. All’interno della dimensione normativa, tutto diventa mera “opportunità politica”, un “gioco di retorica”, una scelta arbitraria. La Logica dei Valori, o Nuova Retorica a là Perelman, non consente alcun controllo sulla validità o verità di ciò che è sostenuto. Semplicemente, come facevano i Sofisti, serve per argomentare in modo “razionale” le scelte prese antecedentemente su motivi d’opportunità, e/o interesse politico.

La Psicopatologia viola la Legge di Hume passando continuamente dal descrittivo (e.g. una normale distribuzione) al normativo (e.g. definire cosa è: normale; ed anormale). La “malattia mentale” è nulla di più dal deviare: dalla maggioranza; dal Pensiero Unico; dalle “norme” arbitrariamente imposte dall’egemonia pro tempore. Non a caso fu tacciata di finir spesso nell’essere uno strumento di controllo sociale, d’omologazione, attraverso il quale imporre comandi camuffanti, dietro forme grammaticali fuorvianti, in enunciati dall’apparenza neutri e scientifici.

Tale violazione priva l’intera disciplina d’empiricità, escludendola dal novero delle scienze empire. Di contro, la rilega nel novero delle discipline normative alla stessa stregua dell’etica e del diritto.

Sarebbe intellettualmente onesto riconoscere la dimensione politica di tali scelte.

 Psicoanalisi

La Psicoanalisi, in fine, è ritenuta da molti estranea al Paradigma Scientifico ed alla Psicologia. Quest’ultima non riesce a soddisfare neppure i criteria della Soft Psychology. Essa sarebbe vista, di contro, come una disciplina umanistica allo stessa stregua della letteratura. Ciò ha portato alcune Università ad escluderla dai curricula in Psicologia, altre a trasferirla all’interno della “facoltà di lettere”.

Alcuni autori sottolineano pure l’incapacità d’essere una forma psicoterapeutica e/o di cura valida (Crews, 2005b).

La maggior parte della teorie psicoanalitiche sono: non-falsificabili; fondate sul mero ipse dixit. Ciò le associa ai dogmi propri d’un’ideologia settaria[17].

Esse sono incapaci di: rispettare il test di Validità (Positivismo Logico); rendersi falsificabili (Popper); soddisfare i criteria richiesti da Lakantos (sviluppare un programma di ricerca progressiva capace di condurre alla scoperta di nuovi fatti non precedentemente conosciuti).

L’unico metodo d’acquisizione della conoscenza è quello dell’Autorità[18]. Ogni scuola, così, radicata nella propria ideologia, accusa chi la pensa diversamente di mancare d’insight (interrogazione soggettiva)[19].

Nessuna scuola rinuncia alle proprie ideologie. Nessuna teoria psicoanalitica è falsificabile; nessuna è corroborabile; tutte semplicemente coesistono e sopravvivono in un perenne limbo, dal quale, all’occorrenza sono pescate per sostenere tutto e l’opposto di tutto.

In una situazione come questa, la psicanalisi ricade nell’essere mera deriva semiotica espressa dall’insieme d’interpretazioni retrospettive, e re-interpretazioni delle interpretazioni, attraverso le quali la REALTA’ è fatta combaciare all’ideologia assunta. Ciò avviene: selezionando arbitrariamente le informazioni; minimizzando alcuni fatti; ingigantendone altri; fraintendendo alcuni eventi; omettendo in toto di considerarne tutto ciò che contradice l’interpretazione (o visione) voluta.

Per questi motivi, la maggior parte delle Università Anglo-Americane (ed Australiane) hanno deciso di non inserire la psicoanalisi nei piani di studio in psicologia, scienze del comportamento e criminologia (B.A.; B.Sc.; B.Scial.Sc.; B.Psych.). Nonostante le raccomandazioni di Brown (1965) d’introdurla come parte della preparazione base per uno psicologo, pochi sono i Paesi in cui ciò è avvenuto.

Uno di questi è Italia. I corsi di psicologia dinamica sono presenti all’interno dei curricula dei corsi di laurea in discipline psicologiche. La psicopatologia, la clinica e la psicanalisi, sono spesso trattate assieme e sovrapposte dove i clinici sono anche psicoanalisti.

Di contro, in Australia le teorie psicoanalitiche sono state escluse dai curricula degli MPsych e DPsych in psicologia clinica in quanto non scientifiche. Molte Università, hanno pure mutato i nomi dei corsi di laurea in Scienze del Comportamento (Behavioural Sciences) per sottolineare l’approccio scientifico contro quello psicoanalitico.

E’ ironico come la meta-psicologia di Freud, evoluta dal Project (1887 –1902) coll’obiettivo di far prendere alla psicologia il suo posto fra le scienze naturali, sia diventata il suo maggiore ostacolo.

Una summa del dibattito storico

Le critiche verso l’a-scientificità della psicanalisi iniziarono col Convegno di New York del 1958. Filosofi della scienza come Ernest Nagel, Hook, dimostrarono come la psicanalisi fallisse nel rispettare i principia del positivismo logico[20].

A queste critiche, col tempo, s’aggiunsero (di volta in volta) quelle inerenti la violazione dei criteria epistemologi che si susseguirono nel tempo (Popper; Lakantos).

Gli psicoanalisti hanno tentato di replicare sostenendo che: la psicanalisi poteva rispettare i criteria delle Scienze Naturali (Bowlby, 1989; Pribram, 1989; Laplanche, 1989); la psicanalisi era in grado di rispettare il metodo delle scienze biologiche poiché meno rigoroso rispetto quello della Fisica (Bowlby; Pantin, 1968); lo psychoanalytic framework era compatibile colla biologia evolutiva e neurofisiologia (Bowlby). Tutte queste argomentazioni furono facilmente falsificate.

Non solo, furono anche sostenute incoerentemente. Lo stesso Bowlby (1989) rigettò il principio di falsificazione come criterium in quanto esistevano epistemologi che presentarono teorie diverse. Uno di questi fu Feyerabend (1970) che sostenne la teoria dell’anarchica della conoscenza. Un’argomentazione che al posto di difendere lo status epistemologico della psicanalisi, equiparò quest’ultimo a quello d’una novella fantasy.

Altri autori sostennero la psicanalisi essere una nuova scienza umana basata sull’autoriflessione (Habermas, 1968). Tesi replicata da Grunbaum (1979a, 1979b, 1982, 1984, 1988).

Un recente dibattito è stato lo scambio avvenuto fra Norman Holland (2004) e Frederick Crews (2005a).

Holland sostenne che soggetti obesi ed alcolizzati hanno risposte orali più alte nel test di Rorschach[21]. In realtà, i research findings non forniscono alcuna evidenza empirica della tesi argomentata da Holland poiché il test di Rorschach: ha bassa reliability e validity (Murphy and Davidshofer, 2001; Hunsley and Bailey, 1999; Groth Marnat, 2003); può essere facilmente “biased” (Hersen and Greaves, 1971). Non solo, Groth Marnat (2003) ha osservato come il Rorschach non ha alcuna “empirical validity” cadendo all’interno d’un mero “consensus validity” ovvero di quell’ipse dixit detto. Non solo, parlare di “consensus validity” per il Roschach è pure un non senso giacché non c’è consenso sul “method of scoring” tra gli psicologi (esistendone diversi)!

La psicanalisi non è mai riuscita a creare un sistema che non fosse incoerente. Questo la fece definire una “teoria zero”(Borch-Jacobsen, 2005e), una nebulosa senza consistenza, un paradigma da rifiutare (Buekens, 2005)[22].

Pure la Chiesa Cattolica assunse una posizione critica verso la Psicanalisi rilevando come questa poteva creare: minorazioni e condizionamenti di personalità, abusando del contesto di “fragilità” in cui si trova la persona. La Chiesa ribadì: la dimensione di mistero, di profondità, di spiritualità, della Natura Umana; l’inviolabilità dell’intimità dell’Uomo; la necessità d’un consenso effettivamente libero . Paolo VI sostenne come la psicanalisi fosse incapace di produrre studi coerenti, convalidati, integrati alla scienza dei cuori ed alla dimensione spirituale. Egli invitò i cattolici a recarsi dal confessore per avere un dialogo costruttivo sui problemi dell’anima piuttosto che dallo psicanalista (Avvenire, 8/11/1973). Il rapporto tra la Chiesa Cattolica e la Psicanalisi fu affrontato da Don Innocenti (1968; 1969a; 1969b; 1970a; 1970b; 1970c; 1970d; 1973; 1974; 1979; 1991; 2010).

Alcuni Esempi d’Incoerenze

Le incoerenze si sviluppano su tre livelli: quelle esistenti tra le diverse scuole e teorie psicoanalitiche; quelle esistenti fra la psicanalisi e le teorie delle altre discipline psicologiche; e quelle esistenti fra la psicanalisi ed il Paradigma Scientifico.

Il primo tipo d’incoerenze è ben conosciuto e concerne le visioni opposte esistenti fra le diverse scuole (si pensi alle forti divergenze tra Freud, Jung, Adler, etc…). Il secondo tipo d’incoerenze verte sul contrasto fra le teorie psicoanalitiche e quelle delle alte branche della Psicologia. Si pensi all’incompatibilità fra psicanalisi e: Funzionalismo; Comportamentismo (Skinner, 1953, 1965); Psicologia Fisiologica (J. Hallandsworth, 1990); etc… . Il terzo tipo d’incoerenza è dato dall’incapacità della psicanalisi di soddisfare il Metodo Scientifico che si è sviluppato nel tempo (passando attraverso le fasi di: Razionalismo; Empiricismo; Criticismo Kantiano; Positivismo; Positivismo Logico; evoluzionismo Popperiano).

L’attuale metodo scientifico è un ibrido fra Positivismo Logico ed Evoluzionismo Popperiano. Il Positivismo Logico pone come criterium di demarcazione fra ciò che è scienza e ciò che non lo è il test di Validità. Una Teoria è vera, solo e solo se è verificabile. Una teoria è verificabile se è in grado di predire un avvenimento futuro date determinate condizioni iniziali. Questo criterium è soddisfatto dalle Scienze Naturali. Per istanza, l’ipotesi, Cloro + Sodio = Sale, può essere verificata osservando che nella Realtà otteniamo il controfattuale Sale, ogni volta abbiamo la condizione iniziale, Cloro + Sodio.

Di contro, Popper presenta un metodo meno “rigoroso” utile alle Scienze Sociali incapaci di soddisfare il test di validità.  Egli sostiene che, non potendo scoprire la Veritas, l’uomo può formulare teorie che s’avvicinano ad essa per gradi di approssimazione. All’interno di questa visione, Popper risolve il problema di demarcazione col principio di falsificazione.

La psicoanalisi fallisce il test di validità ed il principio di falsificazione.

Ad esempio alcune teorie psicoanalitiche legano il comportamento criminale: sia ad un povero attaccamento; sia ad un buon attaccamento (Aichhorn, 1925). Questo crea: da una parte, una teoria non falsificabile; dall’altra parte, una teoria incapace di predire alcunché. Qualunque sia la condizione iniziale, è prevista sempre la stessa conclusione: comportamento criminale! Ciò: la rende inutile nel fare previsioni; e dimostra il suo fallimento nel test di validità poiché non tutti siamo dei criminali!

Queste teorie non rispettano neppure il principio di falsificazione come affermato da Lakatos (1970) che accusò gli psicoanalisti d’esse intellualmente disonesti proprio poiché non formulavano le loro teorie in modo falsificabile, così da renderle inconfutabili, prive delle condizioni necessarie per un loro rifiuto.

Ciò fa credere che le teorie psicoanalitiche sino basate su mere interpretazioni retrospettive a là Weick (1995; 1997). Attraverso queste, grazie all’incoerenza dei costrutti, è sempre possibile costruire, risistemare, selezionare e distruggere parte degli elementi oggettivi della storia della persona e dell’ambiente circostante per “ri-creare” a piacimento il “senso” arbitrariamente voluto.

Tutto ciò è reso evidente osservando la natura degli enunciati psicoanalitici. Essi non sono enunciati descrittivi, neppure enunciati normativi (come quelli della psicopatologia). Essi sono enunciati metafisici/espressivi al pari di quelli della poesia. Un linguaggio che non è né vero né falso. Un linguaggio che: non asserisce niente; non può essere provato o confutato.

La questione del Determinismo e del Libero Arbitrio

Lo status Scientifico delle Scienze Psicologiche dipende anche dalla questione inerente il Libero Arbitrio ed il Determinismo.

Quando si parla di Libero Arbitrio, la letteratura presenta molte varianti. Secondo Thorp (1980) bisogna distinguere tra: Libertà della Spontaneità e Libertà dell’Indifferenza. La prima si riferisce alla capacità d’un agente di poter esprime la sua vera natura. In questo caso, potrebbe scegliere ciò che realmente vuole, senza ricevere interferenze, limitazioni, dal contesto. La seconda si riferisce alla capacità d’un agente di poter compiere una scelta all’interno d’un numero limitato di scelte possibili. In questo caso, dovrebbe essere sempre possibile rispondere affermativamente alla domanda: si sarebbe potuto fare diversamente?.

Altra distinzione riguarda un’eventuale Libertà Assoluta o Scalare. In altre parole se esista un “puro” Libero Arbitrio e/o Determinismo, oppure se esistano realtà ibride fra i due. In quest’ultimo caso, ci s’interroga come possa essere il limbo di coesistenza fra di essi. Un limbo che, a mio avviso, potrebbe essere rappresentabile attraverso i punti d’un ramo d’iperbole in un grafico cartesiano.

Altra distinzione è fra: una Completa o Incompleta Libertà.  L’accento, qui, è spostato sul numero “teorico” delle alternative possibili entro le quali può essere presa una decisione. Il concetto è diverso da quello espresso con Libertà di Spontaneità e Libertà di Indifferenza. Una Libertà Incompleta potrebbe esistere sia con, o senza, Libertà di Indifferenza. Un esempio di Libertà Incompleta con Libertà di Indifferenza è qualora Tizio possa sceglierne liberamente nell’insieme costituito da tutte le Università e Corsi di Studi esistenti nel Mercato. Qualora, di contro, la scelta sia limitata da altri fattori (e.g. le risorse economiche) abbiamo una Libertà Incompleta senza Libertà di Indifferenza. In quest’ultimo caso, non si può rispondere affermativamente alla domanda: “si sarebbe potuto fare diversamente?”.

SE alla Scienza è richiesto fornire leggi capaci di descrivere regolarità tra phenomena (McBurney, 2001; Pedon & Gnisci, 2004; Zappalà, 2007; Chiorri, 2009) ALLORA la Psicologia è Scienza se descrivere tali regolarità. Questo è possibile, SOLO E SOLO SE il comportamento umano e l’attività mentale sono governati dal determinismo. Diversamente, in presenza di libero arbitrio, la Psicologia ricadrebbe nell’essere nulla più d’un senso comune / non-senso come detto supra.

Durante lo sviluppo storico della Psicologia (Viney W. & King D. B. 2003): alcuni autori hanno parteggiato per il determinismo (Psicanalisti e Comportamentisti, e.g. Freud; Watson; Pavlov; Skinner); altri per il libero Arbitrio (James; Jung; Mallow; Rogers). Oggi, il dibattito è ancora aperto e non presenta alcuna soluzione condivisa (Thorp, 1980; Dennett, 1984; Rychlak, 1988; Rychlack & Rychlak, 1990; Viney, 1990;). Esso è particolarmente legato, non allo status epistemologico della psicologia, ma agli effetti pratici e legali in thema di responsabilità penale.

Uno degli argomenti chiave, infatti, a sostengono del libero arbitrio è: l’argomento etico. Esso pone il problema che deriva nell’accettare il determinismo: nullificare la responsabilità personale. Non solo la responsabilità personale, aggiungerei, ma il concetto stesso di responsabilità.

Infatti, se ogni evento è già determinato nell’atto della Creazione a là Laplace (1820), ed in quanto tale prevedibile da Chi possedendo un Occhio Divino è capace di seguire l’intero concatenarsi d’ogni causazione dal Big Bang in poi, non esisterebbe (non solo spazio al libero arbitrio ma) neppure ad una eventuale responsabilità personale e/o sociale.

Gli altri argumenta a favore del Libero Arbitrio, conformerete a Viney e King (2003) sono:

  1. l’assenza d’una buona corrispondenza tra l’idea di determinismo e l’esperienza percepita (nella quale è avvertita una certa libera scelta). Un argomento debole, potendo essere tale sensazione un’illusione (Dennett, 1984);
  2. la contradizione logica di chi credere nel determinismo. Questo poiché non è possibile poter affermare di credere nel determinismo, in quanto il credere implica una certa scelta. Se esiste il determinismo, non si può scegliere di credere in esso, essendovi determinati. Un argomento debole, riducendosi ad un “gioco” di semiotica sul cosa significa credere;
  3. la teoria del Caos ed il principio di indeterminazione secondo i quali il Mondo non sarebbe già determinato ma è un “qualcosa” che può assumere aspetti diversi in termini di probabilità La Storia, non sarebbe così conseguenza d’una catena di causa ed effetto iniziata col Big Bang (Laplace, 1820) ma il risultato d’un gioco di Contingenze e di Imprevisti (Fisher, 1936). Di contro, potrebbe essere vero che, il Caos imprevedibile creato da un battito di farfalla, è tale solo perché l’uomo non può calcolare una funzione capace di quantificare tutti gli eventi e le concatenazioni di causazione esistenti. Qualora fosse in grado di computare una funzione universale, capace di seguire tutte le catene di causazione, incluse quelle inerenti lo spostamento di particelle causato da un battito d’ali di farfalla, tutto ritornerebbe prevedibile, ricadendo nel determinismo.

Gli argomenti a sostegno del determinismo, di contro, provengono:

  1. dalle conoscenze neurologiche. Queste, svelando i meccanismi fisiologici del pensiero, hanno supportato il neurophysiological determinism;
  2. dalla ragionevole aspettativa secondo la quale gli eventi non sarebbero determinati dal “capriccio” del Caso ma conseguono ad una certa regolarità atta a creare appunto l’aspettativa nelle persone.

Gli argomenti inerenti il neurophysiological determinism (la tesi secondo cui ogni evento del corpo è unicamente legato a cause fisiche) sono stati esaminati da Thorp (1980). L’autore distinse tra: physiological determinism; determinism in neurophysiology; neurophysiological determinism.

Secondo Thorp (1980) il neurophysiological determinism sarebbe fondato su d’un sillogismo del quale: la Premessa Maggiore è il determinism in neurophysiology (secondo il quale ogni stato fisiologico è unicamente legato ad uno stato neurofisiologico); la premessa minore è data dalla tesi di correlazione (secondo la quale ogni stato neurofisiologico è connesso ad un tipo di decisione); la conclusione è data dal neurophysiological determinism capace di fornire spiegazioni neurofisiologiche delle decisioni umane (Thorp, 1980).

Lungi dal risolvere questo problema, rilevo come questa questione sia ontologicamente propedeutica ad ogni decisione inerente lo status epistemologico della Psicologia per vi motivi indicati supra.

Personalmente ipotizzerei una sorta di limbo intermedio tra le due posizioni. In questo limbo, l’uomo nasce “schiavo” del determinismo muovendosi “inconsapevolmente” in uno stato mentale[23] guidato dal condizionamento (Tart, 2000). In questo stato iniziale, egli vive come “addormentato”, all’interno d’un’ipnosi collettiva. Egli vive in una “realtà” non reale, ma oggettivata dalla costruzione socialmente (Berger & Luckmann, 1996)[24]. Quest’uomo, si ritrova ad essere un animale intrappolato in maglie di significati che lui stesso ha creato (Geertz, 1973), un animale che però ha la possibilità di riscattarsi: ovvero compiere quello che le tradizioni antiche indicano come “rinascita” e/o “risveglio”. Le tradizioni orientali (induiste) ad esempio, chiamano ciò col termine sanscrito dvija[25].

Questa condizione può essere definita come uno stato di Libero Arbitrio.  Una condizione che possiamo definire operativamente come: la capacità di passare da uno stato mentale dominato da processi mentali di causazione deterministica rispetto gli “inputs” ambientali ad uno stato mentale in cui l’individuo è capace d’autodeterminarsi rispetto agli inputs esterni.

Nella prima posizione, l’uomo agisce mosso esclusivamente: dall’Ipnosi collettiva; dai processi sociali; dai meccanismi di condizionamento classico ed operante; dagli inputs ambientali. Nella seconda posizione, l’uomo diviene libero d’autodeterminarsi diversamente dai valori che assumono questi fattori all’interno della sua funzione deterministica.

Sulla base di questa ipotesi, la psicologia potrebbe essere una scienza valida solo nei confronti del primo tipo di uomo; mentre, di contro, perderebbe ogni senso e valore verso il dvija capace di libero arbitrio.

L’Inganno del Post Hoc, Ergo Propter Hoc

 “… tutto il futuro

Conosco esatto e chiaro,

mai nessuna sventura verrà nuova”.

Prometeo in Eschilo, Prometeo Incatenato

Richiamando i, e rinviando ai, meccanismi citati di volta in volta nell’elaborato, termino questo scritto affermando che, all’interno della Soft Psychology, non di rado domina la struttura logica del: post hoc, ergo propter hoc. Intendendo con questo, l’insieme delle dinamiche che creano ex post (coi meccanismi del confermation bias) gli stessi controfattuali usati per corroborare, confermare, rinforzare l’insieme delle credenze iniziali.

Come avviene può essere compreso sviluppando themae della Psicologia Sociale e Labelling Theory.

La pervasività dell’influenza sociale

Parlando di pervasività dell’influenza sociale ci si riferisce a come l’intero essere individuale nelle sue diverse componenti (pensieri; sentimenti; comportamenti) è interamente determinato dagli altri (interazione sociale). Questo avviene sia quando gli altri sono presenti, sia quando non assenti.

Nulla può essere compreso in psicologia prescindendo dall’influenza sociale, una forza capace di determinarne anche l’identità dei soggetti.

Tutto il comportamento può essere spiegato collo schema: credenze – atteggiamenti – comportamento. Le credenze determinano gli atteggiamenti; gli atteggiamenti determinano il comportamento; il comportamento determina la risposta dell’altro. Attraverso questa catena, le credenze tendono a creare confermation bias (ovvero provocare nei soggetti i comportamenti corrispondenti ad esse).

I costrutti della psicopatologia, diventando parte delle credenze, partecipando alla costruzione sociale della Realtà. Essi influenzano l’interpretazione e la sistematizzazione degli eventi. Inoltre, determinano gli atteggiamenti ed i comportamenti degli agenti sociali, generando confermation bias.

Questo condusse alcuni studiosi a criticare gli approcci clinici in: psicopatologia; e psicologia forense.

Una prima critica fu mossa da LaPiere e Farnsworth (1936). Gli autori sostennero come le diverse forme di mal-aggiustamento, salvo quando non prodotte da lesioni fisiche, sono determinate dalle esperienze sociali vissute dalle persone. Queste esperienze, vissute in modo pieno e continuativo, conducono gradualmente il soggetto ad identificarsi in un ruolo maladattivo definito dalla società. I comportamenti maladattivi, sono tali, infatti, solo in relazione ad uno stereotipo di “sanità” assunto da una data comunità di discorso. Ciò che è considerato socialmente maladattivo può, di contro, in termini dell’esperienza di vita individuale, essere una buona forma di adattamento.

Scheff (1966) sviluppò oltre questo discorso, argomentando come i fenomeni ricadenti nell’etichetta di malattia mentale sono prodotti da giochi perversi d’identificazione ed interazione sociale.

Il fatto che col passare del tempo le forme mal-adattive cambino, seguendo delle mode, dimostra tali teorie, confutando quelle basate sui tratti.

La labelling theory portò questo discorso all’interno della psicologia forense e criminologia. Il primo autore a considerare la devianza, un fenomeno legato all’etichetta ed all’interazione sociale fu Becker (1963). Lemert (1972), in seguito, distinse fra devianza primaria e secondaria. Colla prima s’indica una devianza marginale, contestualizzata, che tende a riassorbirsi. Colla seconda s’indica una devianza che si è radicata nell’identità del soggetto a causa dell’etichetta data e della reazione sociale. Quest’ultima determina i fenomeni di confermation bias, portando il soggetto ad “accettare” di recitare il ruolo di deviante.

L’influenza sociale nel determinare il comportamento individuale è ben provata. Farrington (1977) condusse un quasi-esperimento che dimostrò empiricamente come le condotte antisociali (ed il radicarsi in un ruolo penalmente deviante) fossero conseguenti ai meccanismi sociali descritti dalla labelling theory, non ai tratti di personalità.

Recentemente, i risultati dello studio longitudinale “Peterborough Adolescent and Young Adult Development Study (PADS+)” pubblicati nel 2012 (Wikstrom et al., 2012) hanno dimostrato come le norme morali apprese (learning theory) colla socializzazione rivestono un ruolo maggiormente determinante rispetto alle caratteristiche individuali (la capacità d’autocontrollo; la regolamentazione emotiva; i tratti di personalità) nel determinare il comportamento deviante e criminale.

Chi scrive sviluppò questi studi[26]. Unì alla labelling theory ed alla psicologia sociale le ricerche dell’etologia umana, sviluppando una teoria falsificabile, non contradittoria, non normativa, capace di descrivere quei comportamenti spiegati attraverso il costrutto della personalità antisociale.

La teoria si basa su due passaggi.

Nel primo si descrive come un soggetto e/o gruppo sociale accetti il ruolo di deviante rispetto ad un gruppo maggioritario. L’intero agire umano è per natura ambivalente (Eibl-Eibelfeldt, 1993). In altre parole all’inizio non esiste alcun tratto. Il soggetto possiede entrambi gli opposti comportamenti. Solo col tempo, l’interazione sociale  seleziona alcuni di questi, rispetto ad altri, come schemi abituali di risposta. Ciò però non estingue gli schemi opposti, pronti ad essere riattivati col mutare delle condizioni ambientali. Assunto ciò, si è sviluppato un quadro teorico rielaborando ed evolvendo le teorie descritte supra.

La situazione di conflitto, la bassa stima sociale, etc…, create dall’etichetta e dalle credenze sociali, conducono il soggetto a sperimentare uno stato di social (Merton, 1956; Dohrenwend, 1978) e personal (Selye, 1936, 1976, 1982; Holmes e Rahe, 1967) distress. Questo stato di distress lo rende maggiormente influenzabile ai meccanismi d’influenzamento e di condizionamento sociale. Questi, operando pervasivamente, creano confermation bias. Non solo, influenzano pure la costruzione sociale della sua indenta, spingendolo all’accettazione del ruolo. Mentre inizialmente il soggetto prova a liberarsi dall’attribuzione di ruolo, col ripetersi dei fallimenti e l’impossibilità di mutare le credenze sociali, raggiunto lo stato di learn hopeless, finisce ad accettare il ruolo di deviante.

Nel secondo si descrive l’interazione sociale, attraverso la quale la società crea l’escalation, che spinge il deviante ad agire gli atti aggressivi che i clinici attribuiscono ai “tratti” dell’anti-socialità! Questo avviene passando da uno stato di aggressività intra specifica ad una  inter specifica[27] (Eibl-Eibelfeldt, 1993). Mentre gli animali non possono usare l’aggressività inter specifica contro i membri della stessa specie, l’uomo può farlo, poiché solo attraverso la cognizione (cultura; dinamiche sociali) egli definisce: il gruppo di appartenenza (metaforicamente la “propria specie”); ed i nemici verso cui applicare l’aggressività inter-specifica. Un’aggressività necessaria alla competizione degli spazi vitali.

Questo spiega congruamente, in modo falsificabile e verificabile, il perché: possa occorrere una correlazione positiva fra il comportamento pro-sociale ed il comportamento antisociale; e perché esiste il crud factor.

Una teoria compatibile ad ogni riflessione critica analizzata, capace anche di non violare la legge di Hume in quanto: non è normativa. Essa considera normale ogni risposta data dal soggetto agli inputs provenienti dai diversi contesti sociali. Lo scopo della teoria è illustrare, comprendere e spiegare, come si origina quella risposta. Non è, di contro, quello d’ergersi a Dio decidendo cosa sia: normale e anormale; secondo natura o contro natura; etc… . Tutto ciò che accadere, per il fatto d’accadere, è necessariamente e logicamente sempre secondo Natura, non potendo essere diversamente. Tutto ciò che accade, per il fatto stesso d’accadere, è sempre normale, ovvero secondo norma della funzione inscritta all’interno della Natura che prevede quel risultato, una volta in cui i suoi parametri raggiungono quei dati valori. Una funzione che come le leggi fisiche è inscritta nella tessitura dell’Universo.

Perché c’è una forte tendenza a difendere le incoerenti prospettive cliniche?

Questo avviene per la loro utilità nello spostare l’attenzione dai fatti oggettivi (appartenenti alle dinamiche sociali) a “dimensioni” prive di oggettività, facilmente manipolabili coll’interpretazione. Inoltre, esse sono funzionali ad una versione moderna dell’antico meccanismo del capro espiatorio. Il gruppo sociale maggioritario, non potendo accettare d’essere colpevole del male causato, lo imputa tutto a un soggetto. Questo, non può averlo appreso dalla società (che per definizione deve restare sempre sommamente buona). Quindi, di contro, deve essere al suo interno. Da qui l’esigenza di spiegare tutto coi tratti di personalità. Non a caso, una delle caratteristiche (ed uno dei tratti) attribuite/i allo Psicopatico è l’incapacità d’imparare! Questo elemento deriva dalla, ed allo stesso tempo sottolinea come la, struttura sottostante a tale costrutto sia quella del capro espiatorio.

L’azione del meccanismo del “Post Hoc, Ergo Proter Hoc” nel dare pseudo-corroborazione ai costrutti

Il meccanismo del post hoc, ergo proper hoc, attraverso i meccanismi detti supra crea ex post conferma alle credenze. Prova è data dagli studi citati supra di Rosenhan (1973; 1975) e quelli di Palo Alto.

Inoltre, in psicologia, c’è la tendenza a vedere come psicopatologico tutto ciò che non si comprende e/o non si conosce. Esempio storico è dato dalla paresi progressiva. Un “disturbo psichiatrico” piuttosto rilevante, rappresentando il 15% della popolazione istituzionalizzata. Una patologia ritenuta psichiatrica fino a quando fu scoperta la vera causa: un’infezione del cervello causata da un microrganismo chiamato Treponema Pallidum. Fino allora, ogni comportamento era interpretato, attraverso le lenti distorsive della psicopatologia, in modo tale da essere attribuito al malfunzionamento di entità vaghe quali il pensiero (!) e/o i tratti (!) …, due entità che si prestano a tutto!

Un esempio attuale in cui opera il post hoc, ergo propter hoc: il Morbo di Morgellons

Un esempio recente di bassa interrogazione epistemologica, nel quale è fatto largo uso del post hoc, ergo propter hoc, lo abbiamo nell’attualità del Morbo di Morgellons.

Il Morbo di Morgellons è un “nuovo fenomeno” caratterizzato dalla produzione di filamenti colorati sottocutanei che tendendo ad uscire dal corpo producendo piaghe e lesioni, oltre ad uno stato di affaticamento cronico. Subito, gli Psichiatri ed i Clinici, guardandolo attraverso le lenti del loro paradigma, l’hanno liquidato come malattia mentale. Uno sostenitore di questa tesi è Peter Lepping (Psichiatra). Egli spiega come tutti i sintomi fisici siano causati dal fatto che le vittime, a causa del prurito, si grattano. Per quanto concerne i filamenti colorati, poi non c’è dubbio alcuno, la risposta è che siano tessuti tessili messi dagli stessi soggetti sotto la cute e nelle piaghe mentre si grattano senza averne consapevolezza. Nonostante ciò, i soggetti sostengono come le affermazioni dello psichiatra siano false. L’averli definiti malati di mente però li isola socialmente, facendo in modo che nessuno gli ascolti.

Randy Wymore (professore di farmacologia) ha voluto verificare tali ipotesi. Prelevò alcuni campioni di filamenti da un campione di venti soggetti affetti dal morbo. I filamenti furono analizzati e comparati usando il database della Polizia Forense che contiene ogni fibra tessile conosciuta ed usata a scopo commerciale . Il risultato fu che le fibre non trovavano riscontro nel database[28]. Ciò dimostra che i filamenti colorati: non sono tessili; e soprattutto non sono inseriti sottocute dai soggetti quando si grattano[29] .

La microbiologa Marianne Middelveen cercò di studiare più approfonditamente queste fibre. Dai suoi studi emerse l’ipotesi che le “fibre” si producano all’interno dei tessuti umani. In particolare è stato osservato come nei campioni studiati alla base dei filamenti posso essere visti i tessuti in continua crescita.

Non svilupperò il thema sull’origine di tali fibre[30]  poiché quello che ci interessa è come abbiano operato i processi logico-epistemologici nel corroborare il ragionamento psicopatologico.

Il ragionamento psicopatologico ha mostrato di: fallire difronte al principio di Realtà; reagire in modo superstizioso all’insolito a là Maleus Maleficarum; difettare d’ogni interrogazione ed esame logico-epistemologica; tendere a vittimizzare l’innocente vittima, mosso dal bias del just a world (… se gli capita è perché se l’è meritato).

Questo emerge nel verificare che la tesi della malattia mentale fu avanzata prima ancora di verificare i controfattuali: l’origine; e la natura delle fibre. Poi, fu argomentata col post hoc, ergo propter hoc. Una volta esistenti delle lesioni cutanee, con i rispettivi processi di cicatrizzazione (originati inizialmente dalle fibre non tessili) si gioca sull’ambiguità del naturale deposito di eventuali fibre tessili nel processo di cicatrizzazione come prova che è il soggetto a mettersi tale fibre nelle ferite!

Lo stato di malessere provato dai soggetti, attribuito dai clinici allo stato mentale psicotico, è di contro causato dalla stessa azione dei clinici. I soggetti riportano come ciò che li fa soffrire è proprio questo, il non essere creduti e l’essere considerati malati di mente, quando non lo sono.

Personalmente non voglio prendere alcuna posizione netta pro o contro.

Rilevo l’insensatezza logica del ragionamento clinico nel: non considerare i controfattuali; concludere che tutti i casi sono fenomeni di malattia mentale.

Sarebbe più logico e prudente presupporre una coesistenza di due ipotesi diverse: una psichiatrica, dov’è il soggetto a mettersi sottocute dei filamenti tessili (qualora nel caso singolo si provi questo con controfattuali); ed una non psichiatrica, dove questi filamenti non sono messi sottocute dai soggetti (esaminando ciò coi controfattuali). In caso di dubbio, il giudizio deve rimanere sospeso.

La riflessione epistemologica è importante per evitare che oggigiorno alcune aree della psicologia possano diventare terreno fertile nel quale, antichi phenomena (che caratterizzarono l’Inquisizione), riemergano sotto mentite spoglie attraverso: apparenze pseudo-scientifiche; e formulazioni grammaticali fuorvianti.

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[1] Arteffatto è qualsia “creazione” culturale e/o umana che va: dagli strumenti materiali alle teorie e/o costrutti. Tutti gli artefatti mediano la relazione intercorrente tra gli individui ed il Mondo. Mediare è rendere accessibile all’esperienza (Mantovani, 2007). Ogni mediazione però NON è mai neutra, modificando l’esperienza. L’artefatto limita (guida e filtra) la percezione in un dato modo (Mantovani, 2007).

[2] Exempli gratia, l’alterazione dei data psicoanalitici iniziò con Freud. Dal caso di Anna O. la fabbricazione dei dati psicoanalitici è stata una costante (Borch-Jacobsen 1996, 2005a; 2005d; Esterson A., 2005a; Israels H. 2005c, 2005d; Sulloway F. J. 2005c, 2005d;). Essa è stata usata per convalidare exempli gratia: la teoria della seduzione (Esterson A. 1993, 1998, 2001, 2002, 2005a; Borch-Jacobsen 2002; Cioffi F. 1998; Israels H. 1993, 2005a; Masson J. 1984; Scharnberg M. 1993; Schimek J. G. 1987; Sulloway F. 2005a); false guarigioni (Israels H. 2005b; Borch-Jacobsen, 2005c; Sulloway F. J. 2005b; Stengers I. 2005).

Famoso è stato il caso di Bettelheim e del suo libro La fortezza vuota (e.g. Bettelheim B., 1976; Kanner L. 1964; Pollak, 2005).

[3] Esso può anche dipendere dall’effetto di mera esposizione, la tendenza a preferire gli oggetti a cui si è stati esposti con maggior frequenza. I clinici passano la “vita” a guardare il Mondo attraverso i costrutti psicopatologici (restando esposti a questi continuamente). Ciò li porta a vedere quest’ultimi ovunque, come spiegazione d’ogni evento.

[4] I tre giudici sono professionisti in psichiatria e psicologia.

[5] Exempli gratia: Nick Pope (ex funzionario del Ministero della Difesa Inglese a capo dell’Ufficio Investigativo sui Fenomeni Ufologici) confermò la prassi di screditare socialmente chi si occupava e parlava di tali fenomeni. Altre testimonianze emersero nel Citizen Hearing avvenuto al Congresso Americano nel 2013 (www.citizenhearing.org). Molti testimoni oculari furono apertamente minacciati ed “invitati” a tacere. Altri documenti che confermano tali prassi sono affiorati grazie al Freedom Information Act.

[6] Il libro pubblicato nel 1487 dai monaci Domenicani Kraemer e Sprenger per “diagnosticare” le streghe.

[7] Alcune Nazioni (e.g. Inghilterra) imposero l’oggettività d’una condotta criminale; altre (e.g. la Scozia) esclusero l’esistenza di questa “patologia mentale”.

[8] Alcuni clinici hanno riscontrato tratti di psicopatia in personaggi quali: Madre Teresa di Calcutta. La Santa, secondo questi, integrava sufficienti items diagnostiche per rientrare all’interno d’un quadro psicopatologico di psicopatia. Exempli gratia osservarono presenza di: disobbedienza verso l’Autorità (che la invitò a non occuparsi dei Fuori Casta); rifiuto ad uniformarsi ed omologarsi al comportamento della massa (che, di contro, si disinteressava dei Fuori Casta); incapacità ad imparare per la manifesta tendenza a persistere nelle proprie idee; e soprattutto una decisa callosità ed assenza del rimorso per ciò che faceva (!). Altre persone ritenute psicopatiche furono Rousseau; Lord Byron; Churchill; etc… . Di contro, alcuni eminenti clinici ritennero che i criminali nazisti non integrassero la psicopatia essendo state a loro giudizio persone pro sociali.

[9] Non, l’avere.

[10] Esempi di violenze sociali attuate nei confronti dei ricercatori sono: la privazione improvvisa di fondi promessi; il diventare oggetto di pettegolezzi e di rumori infamanti miranti a distruggerne la credibilità; l’essere licenziati o almeno il non essere promossi; l’allontanamento dall’uso d’alcune biblioteche ed altre facilitazioni indispensabili al loro lavoro; la privazione dei privilegi goduti.

In casi estremi: finire vittime d’attacchi fisici; ricevere minacce rivolte verso i membri della propria famiglia; ritrovare bombe nelle proprie automobili; etc… .

[11] Non ritengo la genialità essere una qualità rara negli esseri umani. Di contro, ritengo che sia: raramente sviluppata; o difficilmente mostrata; … a causa delle dinamiche e delle interazioni sociali che tendono a punirla: estinguendola. La genialità porta ad uscire dagli schema ed esplorare il Nuovo; la Società e la Psicologia, di contro, tendono ad omologare.

Da una parte, la naturale tendenza degli esseri umani, attraverso la socializzazione, la ricerca di consenso ed appartenenza, li porta a conformarsi alle norme sociali, agli stereotipi, ai ruoli, alle credenze, all’habitus del propria Cultura. Dall’altra parte, la società e la psicologia (che non può che non riflettere l’agire umano) tendono a sanzionare, considerare patologico ed anormale, tutto ciò che devia e/o esce dalle norme sociali, dall’ordinario, dalle credenze, dalla routine.  Così è: sanzionato chi mostra genialità; premiato e rinforzato chi s’omologa allo status a quo.

Preciso che la devianza della genialità è rispetto il paradigma, le credenze, la forma mentis; altra cosa è la devianza criminale che, coinvolgendo fenomeni d’aggressività violenta, consegue ad altre dinamiche sociali (di cui un accenno incidentale è dato verso la fine di questo scritto).

[12] Muje in giapponese significa indipendente. Questo termine crea un gioco linguistico. Mu è il nulla; Ye è sia la dipendenza, sia il vestito. Muje quindi è al contempo: l’essere indipendente; l’essere “senza abiti addosso”.  L’abito essendo allegoria dell’habitus, forma mentis, che imprigiona il ragionamento all’interno di schemi prestabiliti crea il gioco di parole. L’essere senza abito è l’essere libero di ragionare trascendendo i limiti d’ogni schema.

Una qualità importante per il Buddhismo Zen della scuola Rinzai che definisce il suo uomo: muje.

[13] Che conformemente a Meehl comprende: la Psicologia Sociale e di Comunità; la Psicologia dell’Educazione; la Psicologia della Personalità; la Psicologia Clinica e Psicopatologia; il Counselling.

[14] I dieci fattori, usando i nomi inglesi originari usati da Meehl (1990a), sono: loose derivation chain; problematic auxiliary theories; problematic ceteris paribus clause; experimenter error; inadequate statistical power; crud factor; pilot studies; selective editorial bias; detached validation claim for psychometric instruments.

[15] Ciò comporta la riduzione dell’errore di I tipo (il rischio di rigettare una vera ipotesi nulla), aumentando, di contro, l’occorrenza d’errore di II tipo (non rigettare una falsa ipotesi nulla).

[16] La legge di Hume impedisce di poter passare dalla dimensione descrittiva a quella normativa.

[17] Il primo a rilevare l’analogia fra psicanalisi e sette fu Alfred Hoche (1910) in Eine psychische Epidemie under Aertzen in Medizinische Klinik, vol. 6, 1910.

[18] Il metodo dell’Autorità consiste nell’accettare le informazioni riferite da una fonte senza mettere in dubbio quanto da essa riferito (Zappalà, 2007), e/o ritenere vero tutto ciò che è stato detto da qualcuno che detiene un certo tipo di potere (Chiorri, 2009). Una metodologia sconsigliata da accettare come metodo di conoscenza poiché le Autorità spesso si sbagliano, anche quando affermano idee con grande convinzione (McBurney, 2001).

[19] Ognuno di Noi potrebbe volendo fondare una “propria scuola psicoanalitica” qui ed oggi. Le proprie teorie avrebbero la stessa dignità scientifica ed intellettuale di quelle di ogni altro psicoanalista vissuto fino ad oggi. All’accusa di mancare di insight, si può rispondere re-inviando l’accusa al mittente. Questo poiché non è scienza, non ci sono fatti, ma solo ideologia ed interpretazioni retrospettive di fatti guardati colle lenti distorsive indossate.

[20] Gli atti del convegno furono pubblicati dal filosofo della scienza Hook (1959).

[21] Qui si tralascia il fatto che la teoria freudiana dello sviluppo psico-sessuale non ebbe fondamento scientifico, ma fu sviluppata da Freud (riprendendo idee di Fliess) “estorcendo” dai pazienti le storie che lui voleva sentire per confermare la sua idea (Sulloway, 2005a).

[22] L’autore nel suo articolo si rivolgeva espressamente ai Lacaniani.

[23] Inteso a là Fodor (1975; 2003) e non a là psicoanalisi (Rosso, 2013).

[24] L’oggettivazione è data dal processo di costruzione sociale della realtà secondo il quale gli esseri umani, interagendo socialmente, producono: sia le loro identità individuali; sia le realtà sociali esperite. Questo avverrebbe col processo trifasico descritto da Berger & Luckmann (1996) di: esternazione; oggettivazione; internalizzazione.

[25] E.g. nei Purana.

[26] Il Presente Autore iniziò a sostenere queste Tesi dal 2003. Nonostante non furono rese disponibili al Grande Pubblico (e.g. in internet), comparvero in diverse Papers. Exempli gratia, all’Università di Cambridge (tra il 2005/2006): furono discusse in alcuni essays; e presentate all’interno della Dissertazione scritta per MPhil in Criminology.

[27] Quella operante nei contesti di guerra.

[28] Da esso mancano solo quelle fibre che, per particolari ragioni di segretezza (e.g. militare), non sono inserite. Fibre che, in ogni caso, nessun civile può disporre in alcun modo.

[29] In seguito, si è tentato di verificare se fossero presenti dei composti organici.

Questi possono essere rilevati ponendo il materiale ad alte temperature. Per effetto del calore, i composti organi si trasformano in gas. I tessuti del campione si sono mostrati resistenti persino a temperature di 760 gradi Celsius. Nei filamenti era assente qualsiasi composto organico conosciuto.

[30] Alcuni hanno ipotizzato le fibre essere: d’origine extraterrestre; e/o legate alle nanotecnologie.