“La perla luminosa sta dentro l’ostrica, la bella gemma sta in mezzo alla roccia: per quanto all’interno esso risplenda, all’esterno è come stolto e insipiente”.
Ho-shang Kung, commento al Tao Te Ching.
L’Anima nell’Antropologia e Storia delle Religioni
Come accennato, Popper (1994) fu uno degli autori che affermò esplicitamente la necessità di superare le suddivisioni tra i rami del sapere. Dinanzi ad un interrogativo, il ricercatore procede interdisciplinarmente poiché Tutto interdipende dal Tutto. Diversamente sarebbe come tentare di risolvere una funzione, prendendo e calcolando solo una piccolissima parte delle sue variabili, ignorando tutte le altre (!!). Dire che ciò conduce ad un risultato sbagliato è in se cosa ovvia!!
L’Anima come “Principio Vitale” nelle Culture Primitive
Agli albori dell’Umanità, i phenomena naturali furono concepiti come azioni delle forze vitali dell’Universo. Forze rappresentate simbolicamente con le immagini di: dei; spiriti; etc… .
L’Uomo, essendo parte della Natura, era anch’esso mosso da un proprio principio vitale: l’anima. Una concezione che assunse il nome di animismo.
Partendo da tali assiomi, il Sonno e la Morte erano visti come l’uscita dell’anima dal corpo. La loro differente natura conseguiva al tipo di separazione: momentanea per il sonno, permanente per la morte.
Le rappresentazioni (e/o le allegorie) usate cambiano da etnia ad etnia.
Gli Eschimesi rappresentano l’anima come un’entità invisibile e sottile colla stessa forma del corpo. I Malesi, di contro, la raffigurarono grande come un pollice e residente in cima alla testa.
Le rappresentazioni dell’anima si differivano da cultura a cultura per: il numero; la localizzazione; la forma. Alcune etnie credono che nell’uomo esista una sola anima; altre una molteplicità. Quest’ultime non concordano sul ‘numero’. Sette per i Batak, Daiachi e d’altri Malesi della penisola. Quattro per gli indiani Hidatsa. Tre per gli Alfur di Poso nel Celebes. Gli indigeni del Laos credono che nell’uomo dimorino ‘trenta spiriti’. Ognuno dei quali presiede una particolare parte del corpo.
Anche la ‘sede’ dell’anima cambiava da etnia ad etnia. Dalle più “gettonate” (testa; cuore) si passa ad altre sedi quali il fegato (Darfur dell’Africa Centrale).
Nonostante le “differenze formali”, tutti condividono un’unica “visione sostanziale” riassumibile colle parole di Zosimo: “due nature, una sola essenza”[1]. Le “due nature” sono: quella immortale raffigurata simbolicamente dal concetto di anima; e quella mortale raffigurata dal corpo fisico. La “sola essenza” è l’unità dell’essere vivente, Subjectum Incarnationis, epifania dell’unjo mystica fra l’Aeterna Anima, Intellegentia Spiritualis, e l’amato Corpus, fidele d’Amore, nella loro reciproca devotio et unjo sympathetica.
Il primo corpus di conoscenze sull’anima fu raccolto dallo Sciamanesimo. Oggetto della sua speculazione erano i ‘viaggi’ che l’anima faceva una volta separata dal corpo. Lo scopo di questi “viaggi” era quello di: contattare gli antenati per chiedere ‘consigli’; combattere gli ‘spiriti maligni’ che causavano le malattie. Le tecniche impiegate erano due: l’uso di rudimentali metodi ipnotici (e.g. la ripetizione di suoni); e l’assunzione di “sostanze allucinogene” estratte da piante e funghi (Frazer, 1910, 1922, 1930; Wittgenstein, 1975; Mircea Eliade, 2005).
L’Anima come “Principio Vitale” nelle Culture Classiche (Occidentali ed Orientali)
Per culture classiche intendiamo all’interno del Mondo Occidentale: la cultura ebraica; greco-romana; cristiana. Quest’ultima sarà trattata nella sezione dedicata alla teologia.
Nel Mondo Orientale riteniamo classiche: l’insieme delle credenze sviluppatosi attorno ai veda (vedismo-bramanesimo-induismo); Buddismo (Hinayana; Mahayana); Taoismo.
Le Culture Classiche Occidentali
Partiamo dall’ebraismo. Nell’Antico Testamento, la parola ebraica tradotta come anima è nefes. Essa indica la gola e/o il collo. In seguito, divenne significante per: vita ed anima. Un termine strettamente connesso colla parola ruah (soffio vitale; spirito; respiro).
E’ da precisare, sin d’ora, come la tradizione ebraico-biblica non conosceva l’idea di anima immortale capace di sopravvivere al corpus dopo la morte. L’essere umano era inteso come uno ed indiviso. Solo a partire dal II/I secolo a.C. un anonimo ad Alessandria d’Egitto, scrivendo il Libro della Sapienza, introduce per la prima volta nella cultura ebraica il concetto d’immortalità greco. Questo fu rielaborato, nella fusione d’orizzonti, come sinonimo d’incorruttibilità. Un mutamento che prese forma nell’ambiente sincretico formatosi ad Alessandria d’Egitto durante il regno dei Tolomei. Una città che divenne uno dei principali ‘crogioli’ di fusione delle diverse culture del tempo[2].
Diversamente dalla parola greca psiche, nefes indica esclusivamente la vita ed il soffio vitale. Essa non include le altre dimensioni quali: le emozioni; i sentimenti, i pensieri; le decisioni; etc… . Quest’ultime, sono espresse dalla parola cuore (leb o lebab) e/o reni.
Quindi nell’ebraismo, nefes rappresenta l’essere vivente (nefes hajjah) nel quale Dio soffia l’“Alito di Vita” (nismat hajjim)[3]. Nel fare ciò, Dio, permette al Soffio Vitale di prendere dimora nell’Essere Creato, rendendolo Vivente.
Come molte religioni e scuole filosofiche antiche, l’ebraismo ha due componenti: una essoterica (pubblica); ed una esoterica (ristretta a pochi).
La prima è costituita: dai libri canonici dell’Antico Testamento[4]; dall’insieme dei riti; dalle preghiere; dai costumi del popolo ebraico. La seconda è costituita: dalla riflessione della qabbalah[5]. Quest’ultima “ufficialmente” nata nel XII secolo d.C. ha origini molto antiche. Risale al corpus millenario della tradizione mistica ebraica, tramandato oralmente fino al XII secolo e messo per iscritto (per vari fattori storici) da quel momento in poi.
Sebbene non sia presente nell’ebraismo essoterico, la qabbalah considerò la possibilità della reincarnazione. Alcuni ‘passi’ e/o ‘termini’ utilizzati suffragano questa tesi. Uno di questi è la parola gilgul che significa: giro; rotazione. Essa indica l’incessante passaggio delle anime da un corpo all’altro. E’ interessante rilevare come quest’immagine allegorico-simbolica sia molto simile a quelle della cultura orientale. Non a caso, in quest’ultima, il “ciclo delle nascite”[6] è rappresentato proprio da una ruota[7]. Una ‘raffigurazione classica’ tibetana, exempli gratia, la dipinge fra le fauci di Yama. Nella ruota sono illustrati i sei destini nei quali le anime degli esseri senzienti possono trasmigrare[8]. I ‘sei destini’ sono quelli: degli Uomini; dei Deva; degli Asura; dei Preta; dei Diavoli (ovvero di coloro che abitano i ‘regni infernali’: naraka); e degli Animali. Un’esistenza ciclica originata dall’Ignoranza Fondamentale[9] che affligge gli esseri senzienti. E’ quest’Ignoranza la causa ultima: del samsara; della genesi interdipendente[10].
Nell’antica Grecia, contrariamente alla cultura ebraica, l’idea della reincarnazione (metempsicosi) era presente nei culti esoterici.
Herodotus affermò che tali idee furono mutuate dalla cultura egiziana. Egli dichiarò che gli Egizi, per primi, affermarono: l’immortalità anima (psyche); ed il processo delle sue rinascite. L’autore arrivò a sostenere che, una volta acquisite tali credenze, i Greci le presentarono come proprie!
Di contro, Herodotus si sbagliò clamorosamente. L’origine delle tradizioni legate alla metempsicosi sono indoariane (nate nel sub-continente indiano). I veda, non influenzarono solamente la cultura indiana ma, tramite le migrazioni indoariane influenzarono anche molte delle culture e religioni del: medio e vicino oriente; e bacino mediterraneo[11]. La loro influenza non si limita alle tracce lasciate dal sanscrito nelle lingue occidentali (quali il Greco ed il Latino). Essa si manifestò anche all’interno dei ‘nuovi culti’ nati dall’incontro, e fusione d’orizzonti, delle tradizioni indoariane con quelle locali.
Un esempio clamoroso dell’influenza Vedica nel mondo Greco-Romano è dato dal culto di Mitra. Quest’ultimo, seppur ri-elaborato ed arricchito da elementi ‘occidentali’ funzionali alle esigenze ed alla struttura sociale dell’impero, ebbe origine nel culto vedico di Mitra.
A confutare definitivamente la tesi di Herodotus è la stessa Religione Egiziana. Quest’ultima, non essendo mai stata influenzata dalla cultura vedica (l’Egitto non fu invaso dalle popolazioni indoariane) sviluppò un corpus di credenze e dottrine incompatibili colla metempsicosi come vedremo infra.
Innanzi tutto è da dire che la Religione Egiziana non possiede un corpus dottrinale uniforme. Di contro, essa è un “conglomerato” di culti differenti, legati ognuno a precise aree geografiche[12]. Il ‘successo’ o la ‘sventura’ d’un culto e/o d’un dio (piuttosto che un altro) rispecchiava i ‘rapporti di forza’ che s’instauravano in Egitto colle ‘lotte di potere’. Col passare del tempo, due divinità assunsero un ruolo principale: il Sole (Atum); ed il Nilo.
I culti più conosciuti, quello di Ra, Amon, Osiride, Aton, furono culti solari subentrati a seguito dei ‘capovolgimenti’ politici avvenuti. Il vincente imponeva il proprio culto sul perdente. Per facilitare il passaggio dal vecchio al nuovo culto, l’ultimo assorbiva il primo[13].
Questo processo di fusione ed assorbimento fu una costante storica. Il Cristianesimo non fece eccezione[14]. Tralasciando l’influenza esercitata ex post dalla ‘religione Egiziana’ negli ambienti ‘magico-occultistici’ (tra il quali quelli legati alla massoneria anglo-americana[15]), la religione cristiana assorbì diversi elementi egiziani[16]. Come esempio, cito l’iconografia cristiana della Regina del Cielo che “cristianizza” la precedente immagine di Iside che tiene Horus seduto sulle sue ginocchia. Un altro esempio è l’immagine del giudizio finale usata dall’arte bizantina. Essa riprendeva l’iconografia del Tribunale presieduto da Osiride (assieme alle altre divinità egizie) sostituendo a quest’ultimo, Dio coi suoi Angeli. Anche l’uso della bilancia per pesare l’anima è ripresa dal simbolismo egiziano[17].
Nonostante ciò, come detto supra, non fu egiziana la dottrina della metempsicosi che, di contro, era letteralmente incompatibile coi suoi culti e credenze.
Per sopravvivere nell’Aldilà, le dottrine Egiziane, richiedevano l’adempimento di tre condizioni:
- conservare il nome nell’Aldiquà. Il nome doveva rimanere scritto su: Steli, Obelischi; Statue; Tombe; etc…[18] .
- conservare il corpo nell’Aldiquà[19].
- continuare a nutrire la ‘salma’ nell’Aldiquà[20].
Sebbene pochi se ne siano accorti, tutti questi elementi furono assorbiti e rielaborati nel Vecchio e Nuovo Testamento. Nella tradizione ebraico-cristiana, la conservazione del nome non avviene più sulle steli. L’adempimento è sostituito dal Libro della Vita custodito da Dio (Esodo; Salmo 69; Lettera ai Filippesi; Apocalisse di Giovanni). Un cambiamento che tolse la possibilità agli eventi dell’Aldiquà d’influenzare le sorti delle anime nell’Aldilà. In questo modo, il destino dell’anima fu rimesso esclusivamente nelle mani di Dio. Solo Lui poteva scrivere o cancellare il nome dal Libro della Vita.
La sopravvivenza nell’Oltretomba, inoltre, non era “roba” per tutti. Nell’Antico Regno fu prerogativa del solo Sovrano. La “democratizzazione dell’Aldilà” (come testimoniata dai testi dei sarcofagi) avvenne durante il Primo Intermedio. In questo periodo, il ‘privilegio’ fu esteso ai nobili ed ai governatori. Solo in seguito, il diritto all’Aldilà fu esteso anche al popolo in grado di ‘comprarselo’. In altre parole a tutti coloro che potevano: costruirsi una tomba; mummificare il corpo; conservare il proprio nome per iscritto[21].
Tutto ciò dimostra come l’Oltretomba egiziano era assolutamente incompatibile colla dottrina della metempsicosi.
Non solo: la reincarnazione era assente; l’anima non era neppure immortale (potendo essere “uccisa” colla cancellazione del nome). L’idea stessa della reincarnazione era impensabile per il forte legame biunivoco ed indissolubile tra anima e corpo. Un legame testimoniato dall’esigenza di conservare il corpo colla mummificazione per permettere all’anima la “sopravvivenza” nell’Aldilà.
L’egiziano era un uomo atterrito dalla Morte poiché essa era la fine di tutto; mentre chi crede nella reincarnazione e/o metempsicosi non lo è.
La dottrina della metempsicosi greco-romana non ha nulla di egiziano. La sopravvivenza dell’anima era certa ed indipendente dalla sorte del corpo e/o del nome. Tutte le anime sopravvivevano senza distinzione di ceto. Una dottrina assai più affine all’induismo ed al buddismo che alla tradizione egiziana.
Nel mondo greco, Psyche era contrapposta a Soma. Una contrapposizione testimoniata dagli Orfici che credevano che il corpo [soma] fosse la tomba dell’anima [psyche] (Platone, Cratilo). Conformemente alle dottrine orfiche, l’anima sarebbe rimasta prigioniera nel corpo fin quando non avesse finito di scontare le pene assegnatole.
Claudianus Mamertus, nel De statu animae, ci testimonia le simili credenze dei Pitagorici. Un esempio è dato dalle affermazioni di Ippone di Metaponto che sottolineò la distinzione fra psyche e soma detta supra.
Durante il Regno dei Tolomei avvenne la fusione tra il pantheon Greco ed il pantheon Egiziano[22]. Questo fu l’inizio della ‘confusione’ che, ex post, permise di sostenere ‘tutto e l’infuri di tutto’ su chi influenzò chi. Elementi propri della cultura Greca[23] furono attribuiti a quella egiziana.
Un esempio di ciò è dato dal Corpus Hermeticum. Una raccolta di detti filosofici greci per tradizione. Di contro, fu “ribattezzato” traduzione greca del “perso” libro di Thot! Un’idea sostenuta dalla massoneria inglese che volle imporre, in tal modo, la figura di Thot (e dell’esoterismo egiziano) al centro del suo Credo. In realtà, le testimonianze escludo che il Corpus Hermeticum possa essere la traduzione dei persi Libri di Thot. Infatti, quest’ultimi risulterebbero essere dei formulari di riti magici e divinatori, non certo dei trattati di filosofia. Di contro, tale attribuzione sembra contenere un più marcato “carattere politico”. Con essa, alcuni ambienti della tradizione esoterica inglese (privi d’una propria tradizione storica), vollero creare “un proprio esoterismo” soppiantando le tradizioni Greco-Romana, Cristiana, Islamica, che dominarono lo sviluppo della “bella filosofia”.
Non a caso, la loggia numero 10 della massoneria londinese (il cui motto è: audi, vide, tace) utilizza l’architettura egizia[24]. Copie del libro dei morti sono dipinte sulle pareti; colonne egizie col fiore di loto appaiono ovunque; decorazioni tipiche dei templi egizi abbelliscono gli ambienti. Lo stesso rituale della rinascita, usato dalla massoneria inglese, fu attribuito alle conoscenze trasmesse da Thot!
Di contro, Arthur Darby Nock (1938) condivise questi dubbi. Egli affermò come il Corpus Hermeticum, escludendo l’ambientazione e la cornice egiziana, contenga ben pochi elementi egiziani. Esso appare essere una manifestazione propria del pensiero filosofico greco espresso in forma eclettica, tipica dell’ellenismo, in cui le diverse dottrine (Platoniche; Aristoteliche; Stoiche) erano fuse con elementi d’altre tradizioni (e.g.: egiziana; giudaica; Iraniana; etc…).
L’autore, nei suoi commenti, omette di ricordare la derivazione vedica di molti elementi che divennero parte delle tradizioni greche ed iraniane attraverso le migrazioni indoariane. Una derivazione che emerge prepotentemente in alcuni miti quali quello di Er raccontato da Platone nel Repubblica. Sebbene alcuni autori (Mircea Eliade, 2005) indichino il mito di Er come espressione d’un ‘viaggio sciamanico’, ritengo di contro che esso non abbia nulla a che fare collo sciamanesimo, testimoniando invece, il legame della cultura greca colla vedica.
Il mito di Er non presenta, infatti, alcun elemento Sciamanico poiché: non c’è trance ipnotica; il ‘viaggio’ non è fatto sotto l’effetto di sostanze allucinogene; il ‘viaggio’ non è intrapreso per comunicare cogli spiriti e/o guarire qualcuno. Insomma, non c’è un solo (e dico uno) degli ‘elementi tipici’ dello sciamanesimo. Di contro, il mito di Er illustra la dottrina della metempsicosi descrivendo il ciclo delle rinascite. Le uniche analogie con questo mito possono essere trovate solo nell’Induismo e nel Buddismo succintamente descritti infra.
Le Culture Classiche Orientali
“Non è capito da coloro che capiscono.
E’ capito da coloro che non capiscono”.
Kena-Upanisad (II, 3)
Da dove partire?
La Parola, non è semplicemente il punto di partenza della religione Egiziana e Cristiana[25], ma anche di quelle che si sono sviluppate attorno ai Veda.
In altre parole, le principali tradizioni Occidentali ed Orientali trovano nella “parola” (logos; verbum; vac) il principio della Creazione, la primogenita dalla quale tutto il resto deriva (Taittiriya brahmana).
Ecco il punto di partenza, la Parola (Vac) vista come: emanazione dell’Essere Supremo; origine della Creazione; rivelazione stessa; il Veda[26] comunicato in forma unitaria. Tramite essa, l’Assoluto rimasto implicito nella Creazione, s’esplicita. Ecco il potere della Parola, esplicitare l’implicito.
Nonostante la tradizione induista consideri la Parola (Vac) sinonimo di Veda, inteso unitariamente, conformante alla tradizione, quest’ultimo fu scisso dal rsi[27] Vyasa[28] nella samhita[29]. Quest’ultima è il Veda in “senso stretto”. Di contro, Veda in “senso lato” include i corpora dei: Brahmana[30]; Aranyaka[31]; e delle Upanisad[32].
Gli inni della samhita, assieme ai testi dei Brahmana, Aranyaka, Upanisad, costituiscono la sruti (ovvero: ciò che è stato udito e rivelato).
Alcuni arrivano ad includere nei Veda i Vedanga[33]. Questi testi costituiscono la smirti (memoria). Contrariamente alla sruti (rivelazione), la smirti è considerata “opera umana”. Per questo motivo, chi scrive non ritiene condivisibile (da un punto di vista “teologico”) far rientrare i Vedanga (smirti) all’interno dei Veda (sruti)[34].
Dopo aver definito e delineato il concetto di Parola (Vac) nella sua dimensione rappresentante, e nel suo carattere significante, c’addentriamo ad esaminare il significato, ovvero ciò che, tramite essa, è rappresentato. In altre parole, descriviamo come l’Assoluto implicito s’è esplicitato nella Creazione, rendendosi conoscibile al pensiero riflessivo del Creato.
L’Assoluto dei Veda, come quello ebraico, è privo di nome. Egli, essendo emanazione d’ogni cosa, è ogni nome. Attribuirli un nome, implicherebbe circoscriverlo in una definizione, ovvero limitarlo. Questo creerebbe l’implosione dello stesso Assoluto. L’Intero, Indiviso, Illimitato, il Tutto non può ricondursi ad una parte divisa e limitata. Ridurlo ad essa, sarebbe privarlo del suo Essere Indiviso ed Illimitato, ovvero ciò che gli conferisce la natura d’Assoluto.
Nei Veda, ci si riferisce ad esso col pronome interrogativo Ka (Chi?) e/o Tad Eka (Quell’Uno). Nell’Ebraismo, di contro, furono adoperati una pluralità di appellativi diversi, spesso conseguenti e rivelanti la pluralità delle tradizioni confluite nella Bibbia. I termini più usati furono: El; Elohim; Yawe; Adonaj.
La pluralità degli dei e delle forme divine, conformemente ai Veda, sono parte dell’inganno di Maya. Esse, difatti, manifesterebbero lo stesso Uno (RG-Veda; Mahabharata, Bhagavad gita). Un Dio Unico, che come il Dio ebraico, non ha immagine (Yajur Veda), essendo egli stesso ogni immagine.
L’insegnamento principale veicolato dai Veda riguarda l’Atman[35]. L’atman indica l’aspetto più d’inafferrabile dell’esistenza (Brhadaranyaka-Upanisad, III, 9,26), il soffio vitale divenuto cosciente all’interno dell’essere fisico (Kausitaki Upanisad, IV, 20). Esso, trascendendo la dualità, assume la duplice natura d’essere: individuale (Atman) ed universale (Mahatman[36]). Una caratteristica che rende possibile l’identificazione dell’Atman col Brahman, conducendo alla riconciliazione del principio individuale col principio universale, nell’identificazione dell’idam col Tad[37] celebrata nel primo Mahavakya[38]. Traducendo il concetto in termini occidentali, è realizzata l’identificazione (e fusione) del micro cosmo col macro cosmo.
Un’identificazione confermata dal verso: “Lui è ciò che Io sono, Io sono ciò che è Lui”[39] dell’Aitareyaranyaka (II, 2, 4). Un verso che esprime l’identificazione dell’anima individuale (jiva) coll’Assoluto rappresentato dall’Isvara all’interno d’un rapporto dialogico ricorsivo[40], che rielabora i concetti veicolati dai Mahavakya[41].
L’essenza del messaggio vedico è questa identificazione. Fallire ciò, significa rimanere prigionieri nel samsara. Solo raggiungendola, può essere ottenuta la liberazione dal ciclo delle rinascite.
In questa prospettiva, ogni essere senziente ha da devolvere ogni pensiero ed azione all’Atman. L’amore per gli oggetti del Mondo è trasceso in amore per l’Atman, di contro, esso sarebbe idolatria[42]. Una trasmutazione che conduce l’amore coniugale ad elevarsi e trascendere in amore per l’Atman, diventando in questa nuova veste, mezzo salvifico. Questo è l’insegnamento impartito da Yainavalkya a sua moglie Maitreyj[43].
Una volta in cui l’amore, trascendendo la dimensione fisica, diventa desiderio, fervore spirituale, atto a condurre il soggetto alla realizzazione dell’Atman, questo si libera dall’illusione che lo rendeva prigioniero del Mondo, facendolo identificare con i suoi oggetti.
In questi termini, l’induismo ed il buddismo rappresentano un vero logos su psyche capace di raccontare senza invidia le più profonde dimensioni della consapevolezza.
Esplorando la dualità (dvandva), i mistici orientali raggiunsero la “non dualità” (advitiya).
Superando la dualità, vinsero l’avidia (ignoranza).
A questo punto è interessante notare come la tradizione greco-romana (Platone; Virgilio) veicoli gli stessi contenuti fondamentali della tradizione vedica[44].
E’ evidente come il mito di Er (Platone, Repubblica) descriva il pellegrinaggio dell’anima all’interno del samsara. Un pellegrinaggio descritto anche da Virgilio (Eneide, Libro sesto). Il sommo poeta lo descrive nel dialogo che avviene tra Anchise ed Enea. Anchise rivela al figlio non solo il processo della reincarnazione, ma anche il rapporto tra l’amina individuale (atman) e l’Anima Universale (Mahatman). Da quest’ultima alligna: ogni cosa; ogni principio vitale costituente l’anima particolare legata al corpo.
La differenza centrale tra cultura Greco-Romana ed Orientale è questa:
- al discendente d’Afrodite nessuno seppe dire come interrompere il ciclo infinito delle rinascite. Questo poiché non fu immaginata alcuna possibilità per farlo.
- invece a Niciketas, Yama (rappresentante il Dio della Morte)[45] rivelò come ottenere la liberazione.
La rivelazione fatta da Yama a Naciketas è contenuta nella Kathopanisad.
Yama, incontrato Naciketas, si offrì d’esaudire tre suoi desideri. Così il ragazzo gli chiede: di essere “lasciato libero” dalla Morte; di conoscere il “fuoco che conduce in cielo”; e di apprendere come liberarsi dal samsara.
Dopo avergli parlato del fuoco che fa oltrepassare la nascita e la morte; di come raggiungere la liberazione nella concentrazione su se stesso; Yama descrive i due destini che attendono l’anima individuale. Il primo è quello che attende tutti coloro che in vita sono rimasti attratti dai beni materiali. Un destino che li imprigiona nel samsara, conducendoli a nuova reincarnazione. Il secondo è quello che attende chi, nell’aver abbandonato tali legami, fu capace di scoprire l’Atman dentro se stesso, raggiungendo la liberazione dal samsara.
Nell’induismo e buddismo, il processo di liberazione implica il superamento dei klesa (impurità; afflizione). Questi possono variare da 3 a 6, in base alle tradizioni e/o scuole. Il nocciolo duro è costituito dai tre klesa fondamentali. Questi sono: l’attaccamento e/o l’avidità; l’avversità e/o l’odio; e l’ignoranza. Il principale è l’Ignoranza Fondamentale (avidya) poiché causa dell’errata percezione della Natura della Realtà, dalla quale consegue ogni altra afflizione (klesa).
Quanto descritto supra è il cardine della filosofia orientale. Tutto il resto è ‘pittoresca illustrazione’, ricche mappe mentali, colorate rappresentazioni dell’altra dimensione, che poco aggiungono alla sostanza del Discorso[46].
Per tali motivi, tralascerò la descrizione dei sei regni, degli otto inferni, dei molteplici cieli abitati dalle varie classi di divinità, della ‘celestiale musica’ suonata dai Gandharva, etc… .
L’Anima nella Teologia ed Escatologia Cristiana
“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo: ma poiché non siete del mondo perché io, scegliendovi, vi ho fatto uscire dal mondo, il mondo vi odia”.
Giovanni, 15, 18-20
La Novità del Cristianesimo
Il Cristianesimo portò l’Occidente ad abbandonare le credenze sulla metempsicosi. Esso assorbì, rielaborò e sviluppò, themae d’origine Egiziana che legavano indissolubilmente l’anima al proprio corpus. Il pensiero cristiano ereditò tali themae: in parte dal pensiero ebraico[47]; in parte dal crogiolo eclettico culturale fornito dall’Impero Romano durante i suoi primi secoli di formazione.
Il Cristianesimo evolse ‘metafisicamente’ alcune idee della religione egiziana[48]. Di grande impatto fu l’estensione della salvezza a tutti, senza distinzione di ‘classe sociale’.
La comprensione del legame biunivoco tra corpo e anima ereditato dalla religione Egiziana ed Ebraica è fondamentale per intendere l’antropologia e l’escatologia cristiana[49].
Al cristiano è concessa una sola vita per ottenere (o perdere) l’eterna salvezza. Il legame indissolubile esistente tra anima e corpo preclude la possibilità della ‘reincarnazione’. Cosa inutile per un Cristiano, dato che lo scopo della reincarnazione è quello di permettere all’anima di potersi salvare da sola all’interno d’un percorso evolutivo (marga in sanscrito; magga in pali) costituito da più vite. Un percorso necessario per gli orientali, in quanto l’anima non può essere salvata da nessun dio, potendosi salvare solo da se stessa. Gli stessi dei, infatti, sono soggetti alla reincarnazione ed al karma. Per il Cristiano, invece, è solo Dio che può salvare. Questo renderebbe inutile un proseguire d’esistenza in esistenza per ottenere un qualcosa che intanto un’anima da sola non potrebbe mai ottenere.
Interessante è la dottrina della resurrezione dei corpi[50]. Una vera novità che creò non pochi problemi filosofici. Ricordo il “problema dello stato intermedio” che intercorre dalla morte storica del soggetto al giorno della resurrezione dei corpi e del Giudizio Universale. Uno iato temporale che, come protagonista, ha proprio l’anima (Ruiz de la Pena, 1988). Un problema che condusse l’Escatologia Cristiana a scindersi in due branche: l’Escatologia Universale; e l’Escatologia Individuatole. La prima tratta: della Storia della Salvezza; del Giudizio Universale; della resurrezione dei corpi; della salvezza dei giusti e della condanna degli ingiusti. La seconda, di contro, affronta proprio: il periodo intermedio che intercorre dalla morte del soggetto al giorno in cui avverrà il Giudizio Universale; e cosa accada all’anima durante tale attesa.
La dottrina della resurrezione è strettamente legata alla dottrina dell’immortalità. Una dottrina eredita dal pensiero Greco che ad Alessandria ebbe già occasione d’influenzare la religione Ebraica (Libro della Sapienza). Nell’assorbire il pensiero greco, l’ebraismo ed il cristianesimo, lo fusero colle loro precedenti credenze, sviluppando una propria concezione d’immortalità. Nonostante (come testimoniato dal Libro della Sapienza) fu “recepita” la distinzione tra soma e psyche, soma e pneuma, il pensiero ebraico-cristiano non intese l’immortalità come quello greco. L’immortalità, a causa delle precedenti credenze ed influenze Egiziane, fu intesa come incorruttibilità del corpo (Luiz de la Pena, 1988). Un assunto fondamentale che portò come naturale conclusione la dottrina della resurrezione.
Il rigetto tassativo della metempsicosi, oltre ai motivi visti supra, consegue proprio alla peculiare idea cristiana d’immortalità / incorruttibilità che nulla ha a che vedere colla filosofia Platonica posta a base del mito di Er.
Non può essere accettata la metempsicosi in virtù del legame indissolubile tra corpus et anima che lega inscindibilmente le “due nature” ad un unico destino. L’anima non va da nessuna parte senza il suo corpus. L’immortalità, così intesa, richiede ed esige l’incorruttibilità del corpus nella resurrezione. Così, durante il Giudizio Universale, assieme saranno condannati o salvati, non potendo l’uno, essere senza l’altro.
Sebbene in duemila anni di Storia la dottrina abbia ricevuto diversi cambiamenti, quanto supra delineato fu il basamento e la struttura d’ogni altro sviluppo. Le differenze affermatosi nel passare dalla dottrina paolina alla “visione classica” della tarda Scolastica, per finire alla Teologia post conciliare, concernono maggiormente le decorazioni date alla struttura, ovvero alle immagini usate per descrivere ed interpretare le Realtà Ultra-terrene. Immagini che anticamente venivano prese alla “lettera”, mentre oggi sono considerate come simboli esplicativi d’una Realtà trascendente altrimenti non comunicabile. Così intese, l’attuale escatologia non è da intendersi come sapere profetico su “cosa accadrà”, né (tanto meno) come ‘mappa’ dell’Aldilà, ma come espressione di Speranza nella Salvezza ultima (Greshake G., 1990). Rinunciare alla Speranza è rinunciare a Dio, come comprese il Sommo Poeta, l’amato Dante, nello scolpire sulla Porta dell’Inferno “parole di colore oscuro”[51] così terribili da dirsi e da pensarsi: “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”[52]. Parole che, in tempi non sospetti, posero l’accento sul capo saldo che la teologia post-conciliare ha messo al suo centro: la Speranza.
La speranza che: la storia personale ed Universale siano orientate verso una buona fine.
Da quanto supra detto, si può dedurre come sia difficile definire l’anima all’interno della Teologia Cristiana. Gesù vince la Morte solo per la resurrezione del corpo. Questo è ciò che si celebra nella Pasqua Cristiana. Questa è anche la differenza del Cristianesimo con ogni altra religione.
L’immortalità, infatti, in sé e per sé non è nulla di nuovo. Tutte le religioni ne parlavano. La stragrande maggioranza riconosce un’anima immortale capace di sopravvivere al corpo. Nessuna, di contro, arrivò ad affermare la resurrezione del corpo fisico. Prendiamo, exempli gratia, il Buddismo. Quando l’essere senziente raggiunge lo stato di Bodhisattva[53], rinunciando d’entrare nel Nirvana, non ritorna nel Mondo col proprio corpo fisico risorto, ma, guardando la storia dei Lama tibetani, con nuova reincarnazione[54].
Per i cristiani, invece, è vero l’opposto. La salvezza presuppone la resurrezione del corpo fisico divenuto incorruttibile, legato indissolubilmente alla propria anima. Gesù risorto appare ai suoi apostoli col proprio corpo. Corpus et Anima sono un’unica unità. Un’unità che, qualora giudicata giusta, sarà libera da “seconda morte”. Un’unità nata nel momento del concepimento in quanto: “simpliciter confidendum est quod animae non sunt create ante corpora, sed simul creantur cum corporibus infunduntur”[55] (San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 118, a. 3, respondeo)[56].
Questo discorso si complica per gli incessanti assestamenti che il Cristianesimo ha avuto nei secoli per adattarsi ai diversi cambiamenti culturali. Nel nome dell’… et…et…, sviluppò un insieme di concettualizzazioni sfumate, ambigue, atte (in base alle occorrenze del momento) a cambiare di significato secondo l’esigenza.
I concetti di anima e di resurrezione ne sono un’istanza.
Partiamo dal concetto di resurrezione. Quest’ultimo presentò forti differenze interpretative passando dall’idea classica (vista supra) ad un idea, confusa e confondente (eretica a tratti), secondo la quale la resurrezione del corpo non è da intendersi come resurrezione del corpo fisico, ma dell’uomo intero concepito come centro delle sue esperienze vissuti e della sua Storia (Greshake, 1978). Un passaggio che mostra come il concetto sia fluido, inafferrabile, in continuo cambiamento.
Il concetto di anima dà un’altra evidenza di ciò. Dall’anima intrinsecamente inseparabile dal corpo, si passa a ‘visioni platoniche’. Da ‘visioni platoniche’ si torna all’unità. Nel frattempo, la ‘politica’ dell’et… et… formulò ‘dogmi’ ambigui attraverso i quali fu tentata la fusione degli opposti ‘credo’. Il risultato fu un insieme di ‘formule’ atte ad assumere, di volta in volta, ‘mille significati’.
Oggi, Mancuso (2007) torna ad affermarne l’unità attualizzandola all’interno dell’attuale cultura scientifica. L’autore ipotizza l’identità tra l’anima ed il corpo in quanto entrambi sono energia. In questo modo, il dogma cattolico affermato nel 1312 a Vienne, in Francia, secondo il quale l’“anima razionale o intellettiva è immediatamente, e per se stessa, la forma del corpo” è reso compatibile colla Fisica Quantistica. Un dogma che dalla sua creazione si prestò a mille interpretazioni, per il grado di ambiguità che dovette raggiungere al fine di integrare la “visione aristotelica” colla “visione platonica”[57]. Un dogma, talmente versatile, da poter essere riadattato alla fisica moderna. Mancuso (2007), rielaborando il ruolo dell’anima, riadatta la forma corporis in un principio ordinatore capace di mantenere assieme la rete di relazioni costituenti il corpo, includendo in queste, le relazioni intercorrenti fra le particelle sub-atomiche. L’anima è intesa come forza unificatrice di tutte le relazioni. Assunta l’anima come principio ordinatore del Micro-cosmo; assunto il Logos come principio ordinatore del Macro Cosmo; Mancuso giunge a spiegare l’uguaglianza fra Micro e Macro Cosmo nella condivisione della stessa struttura logica.
L’Anima ed il suo Giudizio (una breve comparazione)
“La morte è certa per tutto ciò che è nato e la nascita per tutto ciò che muore”.
“Trascendendo i tre attributi della natura che dà al corpo la sua esistenza, l’uomo, liberato da nascita, morte … ottiene l’immortalità”.
Mahabharata (Bhagavad Gita)
E’ interessante osservare brevemente alcuni movimenti di segno opposto all’interno delle credenze escatologiche: cristiane; induiste e buddiste.
L’escatologia cristiana partì dal Giudizio Divino per arrivare ad un’“auto-giudizio” che l’anima compie su se stessa, in virtù della coscienza. Quest’ultima è intesa come la capacità dell’uomo di realizzare se stesso nella Veritas in quanto essere creato ad immagine di Dio. Un’idea che trova la sua origine in San Agostino, il quale già identificava la coscienza nell’elemento più spirituale dell’anima, intendendola come la sedes Dei nella quale Dio, irrompendovi, si presenta come: giudice; testimone; accusatore; difensore; etc … .
L’escatologia orientale compie esattamente un percorso inverso.
Partiamo dall’escatologia cristiana. Essa trasforma l’apocalittica giudaica[58] nella dottrina del Giudizio Universale e nell’attesa del ritorno del Cristo alla Fine dei Tempi.
Conformemente a tale dottrina, Cristo, condensando nella propria persona la duplice figura del Messia e del Figlio dell’Uomo, in virtù della Trinità, diventa manifestazione di Dio nella Storia. Per opera dello Spirito Santo, Padre ed il Figlio diventano interscambiabili, rendendo in questo modo quest’ultimo al contempo Alfa e Omega.
In quest’accezione, l’avvento del Regno Messianico è identificato col premio che i giusti attendono dopo il Giudizio Universale. Tale concezione rimase stabile fino all’escatologia post-conciliare. Quest’ultima introdusse l’idea dell’‘auto-giudizio’. Non è più il Tribunale Divino a giudicare l’anima, ma è quest’ultima, in virtù della coscienza intesa come ‘riflesso’ dell’immagine di Dio nell’uomo, a misurare se stessa.
Nell’induismo e nel buddismo avvenne l’opposto. In origine, non esisteva alcun giudice divino. L’idea stessa d’un Giudice Divino era un non senso ‘teologico’. Da una parte, la sorte delle anime era governata dalla legge del karman. Dall’altra parte, gli stessi dei non erano nulla più d’una delle sei classi di esseri senzienti soggetti alla legge del karman e prigionieri nel samsara.
Nonostante ciò, l’idea d’un giudice divino prese piede in queste tradizioni, trovando raffigurazione in Yama.
I buddisti, per rendere accettabile Yama come giudice divino, l’hanno ‘re-interpretato’ come un’incarnazione delle stesse forze dell’impermanenza e del karman, mentre conduce le anime nello stato intermedio della rinascita.
Nonostante ciò, per un ‘vero’ buddista, Yama è nulla di più d’un illusione creata dalla mente. Questo poiché l’unica realtà esistente è la consapevolezza. Tutto è consapevolezza; noi tutti siamo nulla, ma consapevolezza.
Una consapevolezza radiosa capace di riunire i tre corpi buddici in Uno, trovando in essi la sua stessa essenza (Bar-do Thos-grol Chen-mo[59]).
L’Induismo, conviene col Buddismo, nell’indicare la consapevolezza come mezzo atto al raggiungimento della liberazione (Bagavad Gita).
[1] Zosimo di Panopolis (III secolo d.C.), Memorie Autentiche, capitolo V.
[2] Il Libro della Sapienza fornisce una prova del ruolo predominante esercitato dalla cultura greca sulle altre tradizioni del tempo. Esso confuta, assieme a quanto verrà detto infra, la tesi di chi sostiene l’origine egiziana delle credenze sull’immortalità dell’anima e la metempsicosi. Non a caso, il Libro della Sapienza non fu scritto in ebraico e/o aramaico e/o egiziano. Esso fu scritto in greco, assorbendo concetti propri del pensiero greco (non egiziano).
[3] Nesamah indica il ‘respiro’; ruah lo ‘spirito’.
[4] Per ‘canonici’ mi riferisco al Canone Ebraico (non da fraintendere col Canone Cristiano-Cattolico).
[5] Qabbalah significa tradizione.
[6] Chiamato in sanscrito: samsara.
[7] Cakka in pali; cakra in sanscrito.
[8] La trasmigrazione è governata dalla legge del karma.
[9] In sanscrito avidia; in pali avijja.
[10] La genesi interdipendente (pratityasamutpada in sanscrito; paticcasamuppada in pali) prevede dodici anelli/fattori. Essi, usando i termini pali, sono: avijja (la nescienza); sankhara (le formazioni karmiche/predisposizioni); vinnana (la coscienza); namaupa (il nome e la forma); salayatana (le sei basi sensoriali); phassa (il contatto); vedana (la sensazione); tanha (la brama); upadana (l’attaccamento); bhava (l’esistenza e/o il divenire); jati (la nascita); jaramarana (il decadimento e la morte).
[11] All’interno dello Zoroastrismo, exampli gratia, c’è una forte influenza vedica. Un esempio per tutti: il concetto vedico di Soma è ripreso col nome di Haoma.
[12] Exempli gratia: Ptah era legato a Menfi; Ra ad Eliopoli; Thot ad Ermopoli; Min a Copto; etc… .
[13] Exempli gratia, quando il ‘culto solare’ di Eliopoli (Ra) s’affermò su quello di Menfi (Ptah-Atum), Ra assorbì in sé Atum. Al tramonto Ra prendeva il nome di Atum; al mattino quello di Khepri.
Successivamente, durante il Medio Regno, quando Ammone fu scelto come ‘divinità propria’ dai nuovi Faraoni, il culto di quest’ultimo fu integrato e fuso con quello di Ra. Nacque: Ammon-Ra. In questo modo, il passaggio da un culto all’altro, fu reso “indolore” ed accettabile dai Sacerdoti e Popolo.
Di contro, imporre nuovi culti senza integrarli coi vecchi conduceva a drammatici fallimenti e forti resistenze. Esempio storico è dato dal culto di Aton avvenuto durante il regno di Amenofis IV (Ekhanaton). Il Faraone, tentando di soppiantare ogni precedente culto, non integrò il nuovo coi precedenti. Ciò produsse forti resistenze che, alla morte di Amenofis IV, portarono alla restaurazione dei precedenti culti.
[14] Il Cristianesimo, per affermarsi come nuova religione, usò gli stessi meccanismi di fusione ed integrazione coi precedenti culti, assorbendone iconografie e tradizioni. Ciò avvenne sia livello ‘generale’ che ‘locale’. Un esempio ben conosciuto è l’assorbimento del culto solare del Sol Invictus nella festa del Natale. Altri, possono essere trovati in molte ‘feste religiose’ locali. Quest’ultime, cristianizzavano il culto pagano del luogo, sostituendo alla divinità locale: un Santo; e/o una Madonna. Questi processi di fusione avvennero pure in Oriente. Un esempio è dato dal buddismo Mahayana. Più si diffondeva nel continente Asiatico, più assorbiva i culti preesistenti. Ciò portò alla creazione d’un variegato pantheon (e molteplici forme devozionali) che, in base agli insegnamenti di Buddha, sarebbero rimaste inspiegabili.
[15] A partire dal 1700/1800.
[16] Oltre a quelli ebraici, greco-romani, etc… .
[17] Tale simbolismo fu ripreso pure nell’iconografia d’alcune chiese medioevali. Ricordo quella inglese di Barton vicino a Cambridge.
[18] Cancellare i nomi nell’Aldiquà, significava ‘uccidere’ l’anima nell’Aldilà.
[19] Ciò condusse l’esigenza di mummificare.
[20] L’offerta di cibo e di bevande fu ‘trasmutata’ nella recitazione di formule e preghiere.
[21] Altri elementi egiziani ampiamente ‘celebrati’ sono relativamente tardivi. Il libro dei morti iniziò ad accessoriare le tombe a partire dalla XVIII dinastia. Le ‘famose descrizioni’ dei ‘viaggi’ fatti dai defunti col Sole verso il Tribunale Divino presieduto da Osiride compaiono nel Nuovo Regno.
[22]Exempli gratia, Ammon-Ra fu identificato con Zeus. Un’identificazione affermata già da Alessandro Magno. Quest’ultimo attribuì a Zeus la paternità divina che l’Oracolo di Ammon-Ra gli riconobbe. Alessandro disse d’essere figlio di Zeus, non c’erto d’un Ariete! Thot fu identificato con Hermes creando una delle figure più ambigue dell’esoterismo Occidentale.
[23] Inclusi quelli “ereditati” da altre culture.
[24] Il simbolismo egiziano domina pure l’architettura della massoneria Americana. Esso si riflette: sull’urbanistica della città di Washinton; sulle cerimonie di posa delle ‘prime pietre’ d’alcuni dei più importati ‘edifici pubblici’ (Campidoglio; Pentagono; etc…); sulla forma del Pentagono che richiamerebbe Sirio; sul mausoleo della tomba di Washinton; sulla sede del Supremo Consiglio della Giurisdizione Meridionale del Rito Scozzese Antico ed Accettato degli USA.
Il George Washington Massonic National Memorial fu costruito ad Alessandria (una città a pochi chilometri da Washington) rievocando l’architettura del ‘Faro di Alessandria’. La sede del Supremo Consiglio, sebbene imiti il mausoleo di Alicarnasso, ha al suo ingresso due Sfingi che rappresentano la Saggezza ed il Potere. Dinanzi al petto della “sfinge della saggezza” troviamo l’immagine di Iside. Dinanzi a quella del Potere, l’immagine della “chiave della vita”. Nell’atrio ci sono due statue egizie di scriba seduti.
Sul thema sono stati scritti numerosi libri e trasmesse pure, nell’ultimo decennio, alcune trasmissioni televisive in diversi Paesi. In Italia, exempli gratia, alcuni aspetti citati in questa nota sono stati trattati da Voyager, Rai Due.
[25] L’importanza della Parola nella religione egiziana è testimoniata dal papiro ritrovato dal faraone Shabaka nel tempio di Ptah a Menfi durante l’ottavo secolo a. C.. Il papiro, risalente al 3400 a.C., afferma come il dio unico, Ptah, realizzò la Creazione mediante la Parola. Un altro elemento assorbito e rielaborato dalla tradizione Cristiana nel Vangelo di Giovanni, ove è usato il termine greco Logos e, successivamente tradotto in latino, Verbum.
[26] Veda significa “saggezza/conoscenza”.
[27] Veggente, Saggio. Titolo tradizionalmente usato come appellativo per i sette veggenti che ricevettero la rivelazione dei Veda trascrivendola in versi. I sette rsi furono associati alle sette stelle dell’Orsa Maggiore. Risale, invece, ai Brahmana l’identificazione di questi con alcuni nomi d’antichi Saggi.
[28] La ricostruzione “mitica” semplifica le “dinamiche storiche” attraverso le quali i Veda presero forma.
[29] Questo termine indica la raccolta dei mantra (versetti) senza i “commenti”. In altre parole, indica i soli quattro Veda: Rg-Veda; Sama-Veda; Yajur-Veda; Atharva-Veda.
[30] I brahmana sono commenti in prosa che spiegano: la dottrina del sacrificio (yajna) e dei culti; e trattano le dispute dottrinali avvenute fra i brahmana (sacerdoti) sull’interpretazione dei Veda.
Molti sono stati scritti dopo la samhita. Per tanto, potrebbero non riflettere il senso originario dei primi. Come spesso accade, i testi successivi ri-elaborano tradizioni e riti antecedenti per legittimare l’emergere di nuovi culti. Mutato significato al significante, l’Antico è “trasmutato” in un legno d’Epeo utile per legittimare l’ascesa del Nuovo. Un trucco da prestigiatore fatto per celare al popolo la natura “arbitraria” su cui si fonda il Nuovo che viene imposto.
[31] Gli Aranyaka sono un corpus di riflessioni segrete fatte dai brahmana nella solitudine della foresta. E’ un corpus letterario legato all’ascesi, condiviso da chi si dedica ad essa.
[32] Le Upanisad sono insegnamenti condivisi colla casta dei guerrieri/nobili (ksatriya) incluse le donne.
Gli insegnamenti riportati sono impartiti dagli stessi ksatriya. Quest’ultimi, dialogando con i Brahmana, forniscono ai sacerdoti conoscenze sconosciute alla loro casta.
I sovrani (nelle Upanisad) spesso si rivelano depositari di conoscenze segrete atte a svelare la vera essenza dell’Atman. Vedere: Brhadaranyakopanisad; Chandogyopanisad; Kausitakyupanisad.
[33] Letteralmente “parti/membra dei Veda”. Chiamati nel loro insieme smrti (memoria). Questi testi trattano diversi argomenti: la metrica; il rituale; l’astronomia; l’etimologia; la fonetica; la grammatica.
[34] Intesa come Rivelazione ricevuta in illo tempore.
[35] Parola di etimologia complessa ed incerata, che come psyche, è messa in relazione col respiro. I sostenitori di tale tesi ritengono che derivi dalla parola indo-germanica atmen (respirare), dalla quale derivò pure la parola greca atmos (respiro). Altri, di contro, la mettono in relazione con la radice tan (estendere). Secondo quest’ultimi, l’atman sarebbe “l’estensione del soggetto” che rivolgendosi su se stesso diventa riflessivo. Questa interpretazione è basata sulla forma grammaticale assunta dalla parola che appunto in sanscrito è un pronome riflessivo. Altri, hanno ipotizzato una fusione tra le radici di sat (essere) e man (mente/pensiero).
[36] Ci si riferisce all’atman universale con termini differenti. Exampli gratia: Mahatman; Mahan Atman; Paramatman. Una concettualizzazione che oscilla dall’astrazione filosofica all’identificazione con un Essere Supremo (di volta in volta identificato colla divinità di riferimento d’una particolare tradizione: Visnu; Shiva; etc…).
[37] Idam significa questo e si contrappone a Tad (Quello). Questi due termini esprimono la contrapposizione fra l’individuale e l’universale che è superata nel processo identificativo dell’Atman col Brahman.
[38] Il primo dei Mahavakya esprime l’identificazione del Particolare coll’Universale. Con Tad s’intende Tad Eka, l’Uno privo di nome. Esso recita: Tad tvam asi (Chandogyopanisad, VI, 8, 7): “Quello sei tu”.
Gli altri tre Mahavakya sono:
Aham brahmasmi (Brhadaranyakopanisad, I, 4, 10 ): “io sono il Brahman”.
Prajnanam brahma (Aitareyopanisad, V, 3): “la Coscienza è il Brahman”.
Ayam atma brahma (Mandukyopèanisad, 2): “questo atman è il Brahman”.
[39] “Yo ’ham so ’sau yo ’sau so ‘ham”.
[40] Il rapporto dialogico ricorsivo espresso dalla frase “Lui è ciò che Io sono, Io sono ciò che è Lui” è presente pure nella tradizione alchemica greca. Nella Collection des Anciens Alchimistes Grecs é riportato un testo del II/III sec. d.C. che attribuisce ad Iside, mentre istruisce Horus, le seguenti parole: “… affinché tu sia lui e lui sia te”.
Conformemente a Festugiere (1950/1954), l’“opuscolo di Iside a Horus” potrebbe essere tratto “dalla Fisica di Ermete” e letto assieme alla Kore Kosmou ed altri testi del Corpus Hermeticum. Una traduzione italiana del testo è riportata in: I Meridiani, Alchimia (a cura di Michela Pereira), Milano: Mondadori Editore (da pagina 30 a pagina 34, numeri arabi).
[41] E’ opinione diffusa che il mantra OM (AUM) abbia origine proprio dalla ripetizione della forma contratta di questo mantra: “so ’ham” (Io sono Lui). Nella ripetizione rituale, l’elisione dei suoni consonantici “s” ed “h” produsse il suono OM. Secondo tale interpretazione, il mantra OM racchiude l’identificazione tra l’Atman individuale (Jiva) e l’Atman Universale (Mahatman).
[42] “Né è per amore dei Mondi che i Mondi sono amati, ma piuttosto per amore dell’Atman.
Né è per amore degli dei che gli dei sono amati, ma è piuttosto per amore dell’Atman.
Né è per amore delle creature che le creature sono amate, ma è per amore dell’Atman.
Né è per amore del tutto che il tutto è amato, ma è per amore dell’Atman”.
(Brhadaranyakopanisad, II, 4, 5).
[43] “Non è per amore di un marito che il marito è amato, ma piuttosto per amore dell’atman. Né è per amore di una moglie che una moglie è amata, ma piuttosto è per amore dell’Atman”( Brhadaranyakopanisad, II, 4, 5).
[44] La letteratura greco-romana condivide con quella indoariana una pluralità d’immagini allegorie. Ad esempio, Yama descrive l’Atman usando l’allegoria dell’Auriga (Kathopanisad) utilizzata anche da Platone.
[45] Yama, oggigiorno, rappresenta il dio della Morte nell’Induismo e Buddismo.
Spesso è raffigurato coll’aspetto “mostruoso”, mentre tiene tra le sue fauci la ruota della reincarnazione, oppure come Giudice con Citragupta come scriba. Nonostante ciò, originariamente, Yama non era: né il Giudice delle anime; né la personificazione della Morte. L’Atharva-Veda ci riporta la sua primiera identità, colui che per primo: morì tra i mortali; s’incamminò per “quel mondo”.
[46] Al Discorso può aggiungersi la descrizione delle pratiche psico-fisiche sviluppate dagli Orientali per agevolare l’ottenimento della liberazione.
[47] Già influenzato dalla cultura egiziana.
[48] Exempli gratia, il Cristianesimo porta su piano metafisico le ‘tre condizioni’ richieste dalla religione Egiziana per la sopravvivenza dell’anima. La conservazione del corpo fisico tramite la mummificazione, richiesta dal legame indissolubile esistente tra il corpo e l’anima, è sostituita dalla risurrezione del corpo durante il Giudizio Universale. Il ruolo di viatico rivestito dall’offerta di libagioni è soppiattato dalle opere compiute dall’uomo durante la sua vita, congiuntamente all’azione esercitata dalla Gratia di Dio. La conservazione del nome da trascrivere nell’Aldiquà è rimpiazzata dalla trascrizione nel Libro della Vita custodito da Dio.
[49] Il Cristianesimo è sempre stato una religione eclettica basata sull’et … et …, mai sull’ out … out … . Una caratteristica condivisa col Buddismo, essendosi basato anch’esso sull’ eti… eti…, mai sul niti … niti … . Ciò favorì l’assorbimento e la rielaborazione delle idee circolanti al tempo nel bacino mediterraneo.
[50] La dottrina della resurrezione dei corpi trova la sua origine nel Nuovo Testamento colla resurrezione di Cristo. Essa costituisce una delle “verità fondamentali” del Cristianesimo (San Paolo, Lettera agli Ebrei; catechesi Cristiana). Nonostante non abbia ricevuto ampia trattazione nei Vangeli Sinottici (eccetto pochi passaggi, e.g. Marco 12, 18-28), fu thema molto caro all’evangelista Giovanni (5, 28-30) ed a San Paolo. Quest’ultimo, per primo, svilupperà nelle sue lettere la sua dottrina. San Luca ne parlerà negli Atti degli Apostoli (24,15) scrivendo circa “la resurrezione dei giusti e degli ingiusti”.
[51] Dante Allighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto III, Verso 10.
[52] Dante Allighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto III, Verso 9.
[53] Termine che assume diversi significati. Nell’Hinayana indica il Buddha futuro; nel Mahayana è epiteto d’una pluralità d’esseri illuminati che hanno scelto di rinunciare al Nirvana per restare nel Mondo ad aiutare gli altri al raggiungimento della salvezza. Nel Pantheon – Mahayana sono annoverate molte Boddhisattva tra le quali cito: Avalokitesvara; Maitreya; Manjusri.
Nel testo, il termine è stato usato con questo secondo significato.
[54] La rinuncia della Boddhisattva ad entrare nel Nirvana, per salvare le creature rimaste nel Mondo, è uno dei paradossi del Mahayana. La Boddhisattva decide di rimanere nel Mondo, sapendo di non poter salvare nessuno, poiché solo da solo l’essere senziente può conquistarsi la salvezza.
[55] “Semplicemente … le anime non sono create prima dei corpi, ma sono create contemporaneamente al corpo essendovi infuse”.
[56] Papa Francesco (il 19 Settembre 2014, durante un omelia) ribadì proprio questi concetti. Egli rilevò com’è tendenza comune pensare solo all’immortalità dell’anima, augurandosi che questa vada in Paradiso. Di contro, pochi mantengono la consapevolezza della resurrezione del corpo. Il Papa, pur riconoscendo la difficoltà che oggigiorno c’è nel comprendere questo concetto, ri-affermò la sua centralità nella Rivelazione Cristiana.
[57] Di contro, esso privò l’anima del suo significato originale di “soffio vitale, assorbito dal concetto di spiritus.
[58] Che attendeva un Messia capace di liberare il popolo eletto per creare un Regno Messianico nella Storia.
[59] Libro Tibetano dei Morti.